Arbëreshë

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Keywords: Arbëresh , Italy , minority languages

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  1. Riferimento a tutto il contributo:
    Vito Matranga (2019): Arbëreshë, Versione 2 (11.12.2019, 16:46). In: Roland Bauer & Thomas Krefeld (a cura di) (2019): Lo spazio comunicativo dell’Italia e delle varietà italiane, Versione 90. In: Korpus im Text, url: http://www.kit.gwi.uni-muenchen.de/?p=12805&v=2
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1. Gli Albanesi in Italia

Ben note sono le vicende storiche che hanno determinato la presenza albanese in Italia1. Non sempre, tuttavia, sono stati chiariti, insieme ai macro-eventi storici, gli aspetti motivazionali legati alle condizioni storico-economiche e sociali2, che hanno provocato ciascuna delle diverse ondate migratorie che tra il XV e XVIII secolo hanno portato diversi gruppi di Albanesi a insediarsi nel territorio italiano determinando, soprattutto in alcune regioni, una nuova facies linguistico-culturale. Essi fondarono o ripopolarono, infatti, un centinaio di comunità, la maggior parte delle quali in Calabria. Soltanto in metà di queste (41 centri + 9 frazioni, distribuiti in sette regioni del Meridione) l’uso di una varietà arbëreshe è ancora oggi più o meno vitale (v. fig. 1 e schema. 1).

Fig. 1. Le comunità albanofone d'Italia

Punto   Comune (e frazione) Provincia Abitanti
1 Firmoza Acquaformosa Cosenza 1.108
2 Dàndalli Andali Catanzaro 723
3 Barili Barile Potenza 2.729
4 Këmarini Campomarino Campobasso 8.074
5 Garrafa Caraffa di Catanzaro Catanzaro 1.814
6 Karfici Carfizzi Catanzaro 638
7 Kazallveqi Casalvecchio di Puglia Foggia 1.838
8 Kastërnexhi (+  Farneta) Castroregio (+ Farneta) Cosenza 276
9 Kajverici (+ Qana +  Sënd Japku) Cavallerizzo (+ Cerzeto + S. Giacomo) Cosenza 1.359
10 Qana (+ Kajverici + Sënd Japku) Cerzeto (+ Cavallerizzo + S. Giacomo) Cosenza 1.321
11 Qefti Chieuti Foggia 1.675
12 Çifti Civita Cosenza 912
13 Kuntisa Contessa Entellina Palermo 1.707
14 Purçilli (+ Frasnita) Eianina (+ Frascineto) Cosenza 2.074
15 Falkunara Falconara Albanese Cosenza 1.456
16 Farneta (+ Kastërnexhi) Farneta (+ Castroregio) Cosenza 268
17 Ferma Firmo Cosenza 2.044
19 Zhura Ginestra Potenza 751
20 Katundi Greci Avellino 659
21 Ungra Lungro Cosenza 2.504
22 Maqi (+ Shen Mitri) Macchia (+ San Demetrio Corone) Cosenza 3.442
23 Marçidhuza Marcedusa Catanzaro 436
24 Allimarri (+ Shën Benëdhiti) Marri (+ San Benedetto Ullano) Cosenza 1.511
25 Mashqiti Maschito Potenza 1.621
26 Munxhufuni Montecilfone Campobasso 1.355
27 Puheriu Pallagorio Catanzaro 1.164
28 Hora e Arbëreshëvet Piana degli Albanesi Palermo 6.157
29 Pllatëni Plataci Cosenza 733
30 Porkanuni Portocannone Campobasso 2.490
31 Shën Vasili San Basile Cosenza 1.034
32 Shën Benëdhiti (+ Allimarri) San Benedetto Ullano (e Marri) Cosenza 1.504
33 Strigari San Cosmo Albanese Cosenza 582
34 Shën Kostandini San Costantino Albanese Potenza 686
36 Sënd Japku (+ Kajverici + Qana) S. Giacomo (+ Cavallerizzo + Cerzeto) Cosenza  
37 Mbuzati San Giorgio Albanese Cosenza 1.406
38 Shën Mërtiri San Martino di Finita Cosenza 1036
39 San Marcani San Marzano di San Giuseppe Taranto 9.228
40 Shën Kolli San Nicola dell'Alto Catanzaro 786
41 Shën Pali San Paolo Albanese Potenza 260
42 Picilia Santa Caterina Albanese Cosenza 1207
43 Sëndastina Santa Cristina Gela Palermo 1.008
44 Shën Sofia Santa Sofia d'Epiro Cosenza 2.528
45 Spixana Spezzano Albanese Cosenza 6.977
46 Ruri Ururi Campobasso 2.652
47 Vakarici Vaccarizzo Albanese Cosenza 1.082
48 Vina Vena (frazione di Maida) Catanzaro 300
49 Badhesa Villa Badessa (frazione di Rosciano) Pescara 385
50 Xingarona Zangarona (frazione di Lamezia Terme) Catanzaro 366
    TOTALE ABITANTI   82.773

Schema n. 1. – Le comunità arbëreshe (abitanti: dati Istat al 31/12/2017).

Ovviamente, non tutti gli 82.773 abitanti ufficialmente residenti nei comuni e nelle frazioni italo-albanesi sono albanofoni. Tuttavia, occorre considerare che un numero rilevante di parlanti una varietà italo-albanese è oggi presente in diversi nuclei e comunità sparse nelle aree industriali dell'Italia settentrionale (particolarmente a Torino e a Milano) e nelle grandi città italiane del Centro (in particolare, a Roma) e del Sud (Napoli, Bari, Cosenza, Crotone, Palermo), oltre che nelle metropoli europee (particolarmente a Parigi, Londra, Berlino), negli USA, in Argentina e in Brasile, dove si è riversato il flusso migratorio che, in diverse epoche, ha registrato lo spopolamento dei piccoli centri del Sud italiano.   

Considerato che dall’avvento del fascismo non sono stati più effettuati rilevamenti sulla competenza e l’uso delle varietà linguistiche presenti nel territorio italiano, non si hanno dati complessivi aggiornati sulla consistenza quantitativa dell’albanofonia in Italia.3 L’ultimo quadro numerico era stato fornito, con buone argomentazioni metodologiche, da Gambarara 1980, il quale riportava anche i dati dell’inchiesta svolta da Rother 1968, dalla quale emergeva una percentuale complessiva del 70% di albanofoni nella maggior parte delle comunità italo-albanesi4 Secondo Savoia 2015: 267, «Attualmente, si può calcolare che i residenti nelle comunità arbëreshe siano 100.000, di cui il 60-70% conosce la propria varietà albanese».5

L’etnonimo arbëresh6 designa dunque quei parlanti che, al di là del luogo di residenza, si sentono partecipi, o sono originari, di una comunità italiana che pone le proprie radici storiche nelle vicende della diaspora albanese dei secoli XV-XVI. In italiano, essi sono denominati italo-albanesi (o italoalbanesi), e con lo stesso aggettivo è indicata anche la varietà linguistica da essi parlata. In albanese, il glottonimo è invece espresso in forma avverbiale. Dunque, un Arbëresh (agg./sost.) parla  arbërisht (avv.). Questo antico nome degli Albanesi – sostituito con Shqiptarë7 dentro i confini dello stato balcanico – non è (stato) tuttavia autoidentificativo di tutte le comunità e le parlate italo-albanesi, in molte delle quali è in uso un etnonimo/glottonimo basato sul nome della specifica località. Così, per esempio, a Greci-Katundi (AV) la parlata locale è identificata con la locuzione avverbiale del tipo (flas) a la kadundsha lett. ‘(parlare) alla grecese-alla paesana’; a S. Cristina Gela-Sëndastina (PA) con l’agg. sëndastinar ‘santacristinese’; ecc. A Zangarona e a Andali si suole dire di parlare, rispettivamente, ngriku e ngreku, ossia ‘in greco’. Tuttavia, oggi (e in particolar modo dopo il riconoscimento ufficiale dello status di “minoranza linguistica storica” da parte dello stato italiano tramite la Legge 482 del 1999) l’etnonimo/glottonimo Arbëresh/arbërisht è conosciuto, e sempre più spesso usato8, tra gli italo-albanesi contribuendo a diffondere, o a rinvigorire, la consapevolezza di appartenere a una comunità più grande (quella, appunto degli Arbëreshë) di quella contenuta tra i confini di ogni singola colonia.

2. Le varietà italo-albanesi: tra diacronia e diatopia

Se la denominazione in albanese (Arbëresh/arbërisht) dell'etnonimo/glottonimo risulta neutro sul piano connotativo, la forma italiana «italo-albanese» (con le specificazioni iponimiche quali «calabro-albanese, «siculo-albanese», ecc.) e ancor più quella di «italoalbanese», lascerebbe trasparire specificità marcate sia sul piano etnico che, particolarmente, su quello linguistico.   Essa espliciterebbe, infatti, come osserva Çabej 1994: 86, «una forma di albanese influenzata in misura considerevole dall'italiano e dai suoi dialetti nel corso di una simbiosi ininterrotta di parecchi secoli. Lì intanto è contenuto anche un rapporto linguistico: quello tra l’elemento portato con sé dalla patria d’origine e l’elemento acquistato nella patria d’adozione. E questo rapporto contiene dal lato suo in un certo senso anche una lotta di ordine linguistico, da un lato influenza e dall'altro resistenza».

Le parlate arbëreshe – pur condividendo innumerevoli tratti dell’ordine fonetico/fonologico, morfologico, sintattico, lessicale che convergono a determinare l’appartenenza a uno stesso ceppo linguistico – presentano diversi tratti di differenziazione, che solo di primo acchito sembrano impedire la reciproca comprensione. Maggiori sembrano, invece, le difficoltà di reciproca comprensione tra un parlante italo-albanese e un Albanese balcanico, determinate soprattutto dalla mancata condivisione di un’ampia parte dei rispettivi repertori lessicali, sviluppatisi nel corso di diversi secoli in condizioni culturalmente, oltre che geograficamente, distanti, sotto l’influenza rispettivamente dei dialetti italo-romanzi e dell’italiano, da una parte,  del turco e/o del greco (per le varietà greco-albanesi) dall'altra.

È ormai ampiamente condivisa l’opinione che le varietà italo-albanesi appartengano al ceppo dialettale tosco9, ossia a quelle varietà diffuse nell'Albania meridionale e nella Grecia (quest’ultime note col nome di arvanit), mentre in quella settentrionale e nel Kosovo sono presenti parlate del ceppo ghego10. Tuttavia, come osserva Çabej 1994: 87 «la lingua rappresenta in sé un elemento risultativo, il risultato di certi processi storici, svoltisi in determinate circostanze etniche e sociali. Per essere concepita perciò nella sua forma particolare, questa lingua deve essere considerata in relazione con questi processi e queste circostanze dalle quali è sorta. Coll'equazione italo-albanese = tosco non è tutto spiegato in questa problematica».

Stabilire il ceppo dialettale – o i ceppi dialettali – di appartenenza delle varietà italo-albanesi è importante, ovviamente, per la questione relativa alla individuazione dei territori di provenienza degli esuli albanesi, specialmente in mancanza di un’adeguata documentazione storica. Tuttavia, le varianti linguistiche rilevabili oggi da fonti orali o, un tempo, da quelle scritte11, non consentono di determinare sempre e incontrovertibilmente puntuali correlazioni storico-dialettologiche con le diverse aree territoriali di origine di ciascuna comunità arbëreshe. È, semmai, l’analisi dialettologica a suggerire l’ipotesi che ciascuna comunità italo-albanese sia il risultato di combinazioni di gruppi di diversa provenienza fin dal momento delle loro prime aggregazioni in terra italiana. Tali intrecci si sono resi, poi, via via più complessi sia in ragione degli spostamenti intercomunitari di nuclei più o meno numerosi, sia in ragione delle reciproche influenze tra le diverse comunità arbëreshe, specialmente in quelle microaree nelle quali esse costituiscono oggi arcipelaghi di minoranza. Come osserva Çabej 1994: 87, dunque, «alla soluzione del problema dell’origine delle colonie italo-albanesi possiamo avvicinarci solo con un metodo globale di ricerca, combinando i dati linguistici con quelli della storia e dell’etnografia […] Nell’attuale stato degli studi, in seguito alle ricerche finora compiute, risulta che gli Albanesi d’Italia provengono da diverse contrade dell’Albania12»: settentrionale13, centrale14 e meridionale15, oltre che dalla Grecia16.

Pur su una base sostanzialmente tosca delle microstrutture linguistiche condivise dalle varietà arbëreshe, in alcune di esse si innestano, dunque, tratti che oggi caratterizzano le varietà albanesi settentrionali/gheghe, ma che un tempo erano probabilmente patrimonio comune di una lingua – l’albanese arcaico – più unitaria di quanto lo sia oggi.

L’appartenenza al ceppo dialettale tosco (e più propriamente a  quello del sud-ovest, dove si estendono oggi le regioni della Labëria e della Çamëria, ma anche con strette relazioni con le parlate arvanite dell’attuale Grecia) delle varietà italo-albanesi, secondo Çabej 1994: 90, «traspare chiara in tutto il sistema linguistico, e salta subito agli occhi nell’intonazione». Il linguista albanese non trascura inoltre di osservare che «questa parentela, e d’altra parte questa opposizione con gli altri dialetti dell’albanese, è visibile tuttora, ma deve essere stata più grande nel passato: si deve tenere presente  che i dialetti dell’Albania nel corso di cinque secoli hanno avuto la loro evoluzione, e che d’altra parte i dialetti italo-albanesi, benché in misura minore, anche loro si sono evoluti nel tempo».

Tra i tratti tipicamente toschi, condivisi da tutte le varietà italo-albanesi, i più significativi sono, sul piano fonetico:

  • la rotacizzazione di n intervocalica (per es., gjuri/gluri ‘il ginocchio’, hiri ‘la cenere’, ecc.; gh. gjũni, hĩni, ecc.);
  • l’assenza di vocali nasali (to. hëna/hën(ë)za ‘la luna’, zemëra/zëmbra ‘il cuore’, ecc.; gh. hãna, zẽmëra, ecc.);
  • il sistema esavocalico (i, e, ë, a, o, u), che – come nelle varietà tosche del sud-ovest, ma anche in alcune varietà centrali e settentrionali del ghego17 – non presenta la vocale alta anteriore arrotondata y resa con la corrispettiva non arrotondata i (per es., si/sī ‘occhio’, di ‘due’, ti ‘tu’, vs. sy, dy, ty, ecc.);
  • la conservazione di va- iniziale (per es., val/vaj ‘ olio’, varr ‘tomba’, ecc.).   

Per l’ambito morfologico, si possono ricordare:

  • l’uso, in alcune parlate della Calabria media, del pronome personale di prima persona singolare  u  ‘io’, concordemente alle varietà della Labëria, della Çamëria e della Grecia (Arvaniti)
  • le varianti del caso ablativo indeterminato del tipo mish viçi / lop(j)e ‘carne di vitello / di vacca’;
  • la formazione degli aggettivi deverbali del tipo i larë ‘lavato', i prerë 'tagliato';
  • l’articolo (postposto) -u per la determinazione dei nomi uscenti in consonante velare (per es., miku ‘l’amico’, zogu ‘l’uccello/ il pulcino’, krahu ‘il braccio’);
  • la presenza dei possessivi non articolati del tipo imi ‘mio’, ime ‘mia’, ecc.

Anche nel lessico tutte le varietà italo-albanesi condividono alcune forme tipicamente tosche, come, per es., klëmsht / qumsht (gh. tamël) ‘latte’, gjel (gh. këndues / kanxh / kaposh) ‘gallo’, patak/patanë (gh. kumbira/kërtolla) ‘patata’, e altre.   

Benché non diffusi in tutte le varietà arbëreshe, non mancano tuttavia alcuni tratti  che oggi caratterizzano le varietà gheghe. Tra questi, i più significativi sono:

  • la formazione del futuro con il verbo kam ‘avere’ (+ congiuntivo) invece del verbo do ‘volere’, preferito dalle varietà tosche18: per es., kam të vete  (lett. ‘ho che vada’) vs. do të vete (lett. ‘voglio che vada) ‘andrò, ecc.;
  • la presenza del dittongo ùo in alcune varietà molisane (Campomarino, Ururi) e pugliesi settentrionali (Casalvecchio): per esempio, a Ururi, duomi ‘vogliamo’, duoni ‘volete’, duon ‘vogliono’ (ma dua ‘voglio),  shkuo! – shkruoni ‘scrivi! - scrivete!’)19.

In conclusione, come ci avvertono Gjinari/Shkurtaj 1997: 325, «per un gran numero di isoglosse dell’Atlante dialettologico della lingua albanese le parlate albanesi d’Italia non presentano tra loro una concordanza univoca, ma due o più configurazioni, i quali, dal canto loro, coincidono talvolta con una parte del tosco (soprattutto con quello meridionale), talvolta con l’altra, ma anche con il ghego. Sostanzialmente, abbiamo a che fare con una concordanza tripartita: l’albanese d’Italia con una parlata tosca e entrambe con una parlata del ghego settentrionale» [trad. dall’albanese].

Ovviamente, l’attuale distribuzione diatopica dei tratti linguistici si incrocia con le condizioni dell’evoluzione diacronica delle parlate locali. Per il territorio linguistico dell’albanese, inoltre, la relazione diatopico-diacronica della variazione dialettale assume aspetti particolarmente complessi, in ragione del fatto che la dislocazione geografica seguita agli eventi della diaspora ha determinato anche una serie di biforcazioni, le quali hanno prodotto discontinuità storica e territoriale.

Sul piano geografico, le comunità italo-albanesi costituiscono, infatti, una «sporade» (cfr. Telmon 1994b: 937) sia di arcipelaghi (non per questo, tuttavia, disposti in continua anche sul piano storico-linguistico) che di isole linguistiche più o meno distanti tra loro e variamente distribuite nel continuum italo-romanzo (cfr. fig. 1). Anche in ragione di ciò, gli studi volti a classificare (fenomeni relativi a) le varietà italo-albanesi assumono prospettive e obiettivi diversi rispetto a quelli di una geolinguistica “classicamente” operante in realtà dialettali distribuite in continuità storico-territoriale20.

Sul piano storico, le varietà italo-albanesi sono, comunque, complessivamente caratterizzate da alcuni tratti conservativi, quali:

  • l’uso del neutro nella categoria nominale (per es.. mish-t(ë) ‘la-carne’, klëmsht-it/klumsht-it ‘il-latte’, ecc.), che nelle varietà balcaniche è solitamente passata al maschile (mish-i, qumsht-i);
  • la presenza, nella maggior parte delle parlate calabro-albanesi, di l postvocalica (per es., val ‘olio’, fëmilë ‘bambino’, bilë ‘figlia’, golë ‘bocca’, ecc.), altrove giunta a j  (vaj, fëmijë, bijë, gojë, ecc.);
  • l’occorrenza, in alcune varietà (S. Paolo Albanese, Castroregio, Frascineto, S. Demetrio Corone, S. Sofia d’Epiro, Falconara Albanese), di vocali lunghe, talvolta con pertinenza fonologica21 (per es.,  ‘filo’ vs. pe ‘vedesti’,    ‘occhio’ vs. si ‘come’, ecc.). Questo tratto arcaico è condiviso dalle varietà gheghe e da quelle tosche del sud-ovest.

Anche nell’ambito lessicale sono presenti, in molte varietà arbëreshe, tratti conservativi come, per esempio, l’uso dell’etnonimo/glottonimo arbëresh~albëresh  che, come si è detto, è più antico rispetto a shqiptar, con il quale si autoidentificano attualmente gli Albanesi d’Albania; il sistema vigesimale (dizet ‘due ventine: quaranta’; katërzet ‘quattro ventine: ottanta’), riscontrabile ancora in diverse varietà; verbi quali, per es., ngjidh-ënj ‘afferrare’, ngjet /(n)glet ‘sembrare/assomigliare’, shtrëmbo(n)j ‘torcere’, e altri, oggi non usati in area balcanica; verbi quali ndëlgonj ‘capire’, prier ‘voltare’, gjegj-inj ‘udire’ çonj ‘trovare’, ruanj ‘osservo’, che assumono oggi nello shqip significati per lo più secondari.

Le varietà arbëreshe condividono, inoltre, una serie di lessemi i cui significati divergono da quelli attualmente riscontrabile nelle varietà balcaniche. Così, per es., la coppia verbale puno(n)j arb. ‘arare’ vs. shq. ‘lavorare’ / shërbe(n)j arb. ‘lavorare’ vs. shq. ‘servire’;  il sost. fem. herë  ‘volta’ anche con il significato di ‘ora’ (shq. soltanto ‘volta’);  gli aggettivi i/e/të drejt ‘dritto’ e i/e/të shtrëmbër ‘storto’ per indicare rispettivamente la ‘mano destra’ (e drejta / dora e drejt) e quella sinistra (e shtrëmbëra  / dora e shtrëmbër), ecc.     

Relativamente all’intreccio tra mutamento diacronico e variazione diatopica, esemplare è il trattamento di l postconsonantica, già considerato da Solano 1979 (v. fig. 2). La laterale alveolare è ben conservata nelle varietà arbëreshe meridionali (siciliane22 e calabresi meridionali) e in buona parte di quelle settentrionali, tanto con le labiali (per es. plak ‘vecchio’, plot ‘pieno’, bluanj ‘macinare’, ble(nj) ‘comprare’ flas ‘parlare’, flurur ‘farfalla’ ecc.) quanto con le velari (per es., gluh(ë) ‘lingua’, i glat(ë)  ‘alto, klëmsht/klumsht ‘latte’, kla(nj) ‘piangere’, ecc.). Nelle varietà più settentrionali (Villa Badessa-PE, Montecilfone-CB, Ururi-CB, Chieuti-FG), l  si mantiene con le labiali (plak, bluanj, flas, ecc.), ma non con le velari, contesto nel quale il nesso giunge all’ultimo stadio evolutivo (ossia, l’occlusiva palatale, rispettivamente, sonora gj [ɟ] e sorda q [c]: gjuh(ë), i gjat(ë), qumsht, qanj, ecc.), concordando, in questo modo, con l’albanese standard. Lo stesso stadio di palatalizzazione delle velari (gjuh(ë), gjëmbë, qish, qanj, ecc.) si ha nelle varietà mediane (Valle de Crati), dove la laterale postlabiale raggiunge un ulteriore stadio di palatalizzazione passando a (λ >) j (pjot, bjuanj, fjas, ecc.). Quest’ultimo fenomeno – per il quale Pellegrini 1994: 115 ipotizza una qualche influenza delle varietà romanze – è condiviso dalle regioni gheghe dell’Albania mediana.

Fig. 2 -  Consonante + l (cartina elaborata da Solano 1979)

Ovviamente, a caratterizzare le varietà italo-albanesi sono oggi soprattutto i tratti – particolarmente quelli lessicali – acquisiti attraverso il contatto plurisecolare con le varietà romanze e con l’italiano stesso. Non sono molti gli studi volti a quantificare l’apporto lessicale romanzo nelle varietà arbëreshe23. Certamente si può affermare che esso è meno numeroso nell’ambito del lessico familiare e in quello di base, mentre copre cospicuamente concetti relativi a campi esperienziali legati alle attività produttive (specialmente a quelle meno tradizionali) e commerciali, e  in generale agli ambiti comunicativi  propri delle società economicamente evolute. Anche in questo caso, tuttavia, né i prestiti né i filtri del loro adeguamento ai microsistemi delle varietà ospiti sono sistematicamente condivisi da tutte le varietà arbëreshe. Così, per esempio, nell’adeguamento dei verbi romanzi si possono riscontrare modelli diversi24:

  • radice romanza + flessione albanese: per es. sparanj-onj ‘io risparmio’, rrëv-onj ‘io arrivo’, ecc.
  • infinito del verbo romanzo + flessione albanese: mbit-ar-ënj 'io invito', gudh-ir-ënj ‘io godo’;
  • radice romanza (+ suffisso greco) + flessione albanese:  ngol-is-ënj  'incollare', çot-jas-ënj 'insupidire',  stirand-aks-ënj 'stiraccchiare', ecc. 

I prestiti lessicali romanzi vengono generalmente adeguati ai microsistemi fonetico-fonologici di ciascuna varietà locale e spesso conservano tratti arcaici che nelle varietà  d'origine sono nel frattempo mutati25. Così, per esempio, nelle varietà siculo-albanesi i prestiti siciliani conservano i nessi mb e nd che nelle varietà romanze meridionali si presentano ormai assimilati rispettivamente a mm e nn (per es. qumb-i = sic.  chiummu ‘il piombo’, llemb-i = sic. lemmu ‘catino, concola’, ecc.; mendull-a = sic. mènnula ‘mandorla’; mundèl-i = sic. munneḍḍu ‘recipiente e unità di misura dei cereali’); conservano la laterale l/ʎ (< ll < LL) passata alla cacuminale ḍḍ nelle varietà meridionali estreme (per es., nuçile/nuçile = sic. nuciḍḍa ‘nocciolo’, çaravèl / çaravèʎ = sic. ciaraveḍḍu ‘capretto’, ecc.); e altri tratti.

Non mancano, tuttavia, tratti nei quali il filtro dell’adeguamento fonetico-fonologico si è interrotto. Ancora a Piana degli Albanesi, per esempio, la laterale alveolare breve l del siciliano non subisce più l’adeguamento a ll [ɣ/ʁ]. Qui si ha, infatti, per esempio, llëmpa (< sic. lampa) ‘lucerna’, llampiun (< sic. lampiuni), ecc., ma lampadhin(ë) (< sic./it. lampadina), xhilàt (< sic./it. gilatu/gelato), ecc.

In alcune varietà italo-albanesi, inoltre, è il sottosistema fonetico-fonologico della varietà albanese a subire modificazioni sotto l’influenza delle varietà romanze – e particolarmente dell’italiano – , con le quali è venuta a contatto.  In alcune varietà molisane e cosentine, per esempio,  la vocale media centrale ë  (spec. in posizione atona finale) è resa con a (per es. ça  ‘che cosa’,  uja ‘acqua’, nga ‘non’; kama ‘ho’, vjena ‘viene’), e secondo Pellegrini 1994: 117 «è verosimile che codesta alterazione stia in rapporto con la tendenza dei locutori meridionali a fondere le vocali finali in –a (che sostituisce lo schwa) anche nell’italiano regionale». È sicuramente dovuto al contatto con le varietà romanze la tendenza, specialmente nelle più giovani generazioni, a neutralizzare in alcune varietà arbëreshe le fricative interdentali, sorda (th) e sonora (dh), rendendole con foni condivisi dal sistema romanzo26. Così, per esempio, a Contessa Entellina e in giovani parlanti di Piana degli Albanesi, si pronuncia sik (per thik) ‘coltello’, gjis (per gjith) ‘tutto’; dëmbi (per dhëmbi) ‘il dente’,  darda (per dardha) ‘la pera’, ecc.

Ancor più significativa è, a proposito della risistemazione dei sottosistemi fonetico-fonologici dovuta al contatto con le varietà italo-romanze, l’acquisizione di nuovi fon(em)i nel diasistema di alcune comunità arbëreshe. Così, per esempio, la pronuncia cacuminale di alcune consonanti, tipica delle varietà romanze meridionali estreme, è stata acquisita anche in parole albanesi. A Contessa Entellina, così come a Vena di Maida, per esempio, motra ‘la sorella’ è pronunciato moṭṛa, shtrëmbër ‘storto’ è pronunciato ṣṭṛëmbër, ecc. Similmente, benché con un percorso diverso, anche la varietà di Falconara Albanese mostra una modificazione del sistema fonetico-fonologico con l’introduzione dell’occlusiva cacuminale, che ricorre al posto della laterale (l o λ) in parole albanesi come  ḍuḍe per lule / λuλe ‘fiore’, ecc.

In alcune varietà, anche il sottosistema albanese della determinazione e della flessione nominale sembra subire significative ingerenze delle varietà italo-romanze: a Piana degli Albanesi, per esempio, frasi come shoh a televisjoni ‘guardo la televisione’, ble u telefonu ‘compro il telefono’, ecc. - dove il nome è preceduto dall'articolo siciliano preposto - ricorrono oggi sistematicamente in tutti i parlanti, mentre non sono grammaticalmente accettate le corrispettive frasi morfosintatticamente adeguate all’albanese: *shoh televisjonën, *ble telefonin, ecc.27. La struttura tipicamente balcanica (Nome+Determinante) viene quindi a convivere con quella romanza (Determinante+Nome) seguendo una “norma linguistica” che è condivisa sistematicamente dall’intera comunità, che non è soggetta a variazione sincronica e che non si lascia interpretare con la fenomenologia del code mixting28

Non mancano, ovviamente, anche calchi strutturali e semantici, alcuni dei quali sono condivisi da buona parte delle varietà italo-albanesi. Tali sono, per es., si rri? prop. ‘come stai?’ (usata più frequentemente della forma alb. si je? [prop, ‘come sei?’], sa vjeç ke? prop. ‘quanti anni hai?’ (più frequente dell’alb. sa vjeç je? [prop. ‘quanti di anni sei?’], ecc.29

3. Il repertorio linguistico

Il contatto plurisecolare con le varietà romanze ha causato, dunque, innovazioni di diverso ordine (fonetico-fonologico, morfosintattico e, soprattutto, lessicale e fraseologico) che hanno determinato una maggiore convergenza tra le varietà arbëreshe e tra queste e le varietà romanze, particolarmente negli ultimi decenni attraverso l’azione livellatrice dell’italiano, che si è posto – così come nei repertori italo-romanzi – come “lingua guida” (secondo il concetto espresso da Pellegrini 1977: 17) - anche delle varietà arbëreshe30.

È, infatti, indubbio che l’italiano (standard, regionale, popolare) si presenti, oggi, come varietà alta degli usi scritti anche per tutti gli Arbëreshë. Non altrettanto pacifico è, invece, desumere  lo status e la funzione delle altre varietà (l’albanese e il dialetto italo-romanzo) nei repertori linguistici delle diverse comunità italo-albanesi, differentemente configurati anche in ragione dei diversi rapporti di forza (anche sulla base di una distribuzione quantitativa) tra i differenti gruppi familiari – edogamici, esogamici, misti –  che hanno condiviso e condividono lo stesso spazio comunicativo intracomunitario31.

Pertanto, sarebbe più opportuno determinare i rapporti di status e di funzione delle varietà che configurano i repertori linguistici attribuendo, eventualmente, le specifiche condizioni della diglossia o della dilalia non all’intera comunità, ma ai singoli e diversi gruppi familiari (o sottocomunità) che la compongono32.

Tipicamente, infatti, anche la componente esogamica delle comunità italo-albanesi – costituita da famiglie originariamente non arbëreshe e romanzofone e designata dagli Arbëreshë con l’etnonimo Liti(r) ‘Latino’ – presenta oggi repertori dilalici (secondo la definizione di Berruto 1987b e Berruto 1989), con l’italiano parlato anche nei domini un tempo riservati al dialetto italo-romanzo; mentre la componente endogamica arbëreshe mostra ancora, per lo più, un comportamento diglossico (a la Ferguson) selezionando, tendenzialmente, la varietà albanese in tutti i domini della comunicazione orale. I gruppi familiari misti (arbëreshë-litinj) gestiscono, inoltre, generalmente repertori compositi (bilingui o trilingui) con relazioni diglossiche o dilaliche particolarmente in ragione delle competenze linguistiche della madre, che tipicamente condizionano l’acquisizione della L1 dei figli. Generalmente, quando la madre è albanofona, più spesso i figli acquisiscono anche l’albanese come L1 e il loro comportamento linguistico viene attratto nelle sfere, rispettivamente, della diglossia (italiano e albanese) nelle relazioni in-group (ossia, con gli albanofoni), della dilalia (italiano e dialetto italo-romanzo, quando quest’ultimo è conosciuto dagli interlocutori) o, più spesso, dell’uso esclusivo dell’italiano nelle relazioni out-group (ossia, con i non-albanofoni).

Esaminando alcuni dati rilevati nel 1981 in un’area albanofona del cosentino, Altimari 1983: 52 riscontrava, per esempio, una situazione sociolinguistica che, sulla scorta di Ferguson 1959 e poi di Fishman 1972b, si configurava come «diglossia con bilinguismo sociale». E – precisava lo studioso calabro-albanese – se si tiene conto «dell’insieme di varietà linguistiche note attivamente o passivamente alla maggior parte dei membri dei due gruppi linguistici (quello albanese e quello italiano) di quest’area, credo si possa legittimamente parlare di una situazione di diglossia con plurilinguismo sociale. In quest’area coesistono infatti diversi sistemi linguistici. Accanto alla varietà linguistica arbëreshe, più diffusa nei centri urbani, troviamo il dialetto locale calabrese, parlato prevalentemente nelle zone rurali. L’italiano nelle sue varietà (regionale, popolare e standard), risulta essere lingua seconda (L2) per la maggioranza dei parlanti di questo comprensorio, e lingua materna (L1) soltanto per una ristretta cerchia di parlanti, provenienti da nuclei familiari mistilingui o italofoni, di estrazione socioculturale media e alta».

Il dialetto italo-romanzo è, dunque, varietà funzionale soltanto nei repertori dei gruppi esogamici o misti delle comunità italo-albanesi e, in ragione della diversa provenienza areale dei componenti, non sempre costituisce una varietà omogenea. Ciò comporta l’impossibilità di configurare varietà italo-romanze che presentino tratti arealmente rappresentativi (anche) delle specifiche comunità italo-albanesi. Non esiste insomma, per esempio, una varietà siciliana di (ossia, con tratti attribuibili anche) a Piana degli Albanesi o una varietà calabrese di S. Demetrio Corone o una varietà campana di Greci, ecc., e i sistemi dialettali (nei tratti fonetici, morfosintattici, lessicali, semantici) eventualmente gestiti dagli albanofoni di una stessa comunità sono diversi in ragione del differente percorso dello loro acquisizione, che è spesso legata ai contatti negli ambienti scolastici e/o lavorativi extra-comunitari: urbani o rurali33.

Generalmente, dunque, nella componente endogamica delle comunità italo-albanesi il dialetto italo-romanzo, allorquando se ne abbia anche una competenza attiva,  è riservato  alla gestione della comunicazione con l’out-group (intracomunitario o extracomunitario) e pertanto non è oggi un «competitore» dell'albanese nella gestione dei domini familiari e amicali dell’in-group.

L’albanese locale, invece, è talvolta acquisito secondariamente anche dai parlanti non-Arbëreshë delle comunità italo-albanesi tanto più frequentemente quanto più la componente esogamica è minoritaria, e tanto più fluentemente quanto più bassa è l’età del parlante al momento del suo inserimento nella comunità34.

Benché le varietà del repertorio delle comunità italo-albanesi abbiano comunque, dal punto di vista funzionale, una distribuzione gerarchica (verticale), l’albanese presenta alcune condizioni differenziali rispetto alle varietà basse dei repertori italo-romanzi. Ciò anche in ragione del fatto che, pur essendo gli Arbëreshe generalmente privi di alfabetizzazione nella lingua nativa, le varietà albanesi non mancano di elaborazione scritta. L’albanese d’Italia vanta, infatti, non soltanto una propria tradizione letteraria35, ma anche una multiforme tipologia di testi (vangeli, epistole, preghiere, inni, canti, ecc.) funzionali – insieme a quelli in greco –  alla ufficiatura del rito bizantino. Dal punto di vista specificamente linguistico, poi, quelle arbëreshe  sarebbero – secondo lo schema interpretativo di Kloss 1967 – varietà dialettali di una Ausbausprache, l’albanese standard che, sulla scorta delle precisazioni di Berruto 2001b, ne rappresenterebbe potenzialmente la «lingua d’appoggio»36.

Come osservava Altimari 1983: 53, dunque, tra gli Albanesi d’Italia «l’arbëresh mostra una tendenza ad assumere alcune delle funzioni che, in un dialetto coperto da una lingua letteraria, sono di solito svolte da quest’ultima». Tendenzialmente, infatti, l’albanese locale – pur in commutazione di codice, in formulazioni mistilingue e/o con adozioni di prestiti più o meno «di lusso», in dinamiche più o meno obbligate anche in ragione dell’argomento trattato – è selezionato «in tutte le interazioni di carattere formale ma non pubblico, con interlocutori che siano tutti albanofoni. Quando, invece, subentra l’ufficialità nella situazione comunicativa o si ha l’inserimento nella conversazione di interlocutori non-albanofoni, gli arbëreshë preferiscono servirsi dell’italiano (regionale o popolare) come “varietà alta” e che viene così a coprire tutte le interazioni di carattere formale e pubblico».

4. Vitalità

I noti concetti della diglossia e della dilalia sottendono alcune generiche implicazioni che sul «comportamento» (socio)linguistico dei parlanti hanno l’«atteggiamento ideologico» e il «sentimento linguistico», i quali, a loro volta, contribuiscono a configurare il livello di «prestigio» attribuito a ciascuna varietà di un repertorio linguistico. Pur non mancando studi più specificamente dedicati alla configurazione delle «immagini della lingua» che, nel quadro delle comunità di minoranza linguistica in Italia, danno alcune indicazioni anche su quelle italo-albanesi37, occorre ammettere che la questione è certamente complessa e difficilmente generalizzabile, considerato che, come avvertiva Francescato 1982: 134, lo studio degli atteggiamenti nei confronti della lingua nativa porta sul terreno dei sentimenti che sono individuali e privati e che, dunque, la loro rappresentazione espressa in termini di ‘gruppo’ è una semplificazione forzata e restrittiva38. Inoltre, occorre considerare che atteggiamenti, sentimenti e livelli di prestigio attribuibili alle varietà del repertorio sono soggetti a variare anche nel tempo, risentendo dei più generali (internazionali, nazionali e locali) mutamenti sociali (socio-economici) e culturali. Relativamente al contesto italo-albanese, due ricerche effettuate da uno stesso studioso (cfr. Bolognari 1978 e Bolognari 1986) in alcune comunità del cosentino mostrano, per esempio, come nel corso di un decennio – cruciale anche per la realtà sociolinguistica italiana – anche l’atteggiamento dei parlanti nei confronti della varietà albanese sia profondamente cambiato e il prestigio ad essa attribuito, che «dall’indagine del 1974 risultò […] molto basso» (Bolognari 1986: 47) risulti invertito nel 1986 (e dunque oltre un decennio prima dell’approvazione della nota legge italiana 482/1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche).

Alcune dinamiche interne relative ai comportamenti, agli usi e alla percezione delle varietà arbëreshe sono state esaminate, più o meno recentemente e con approcci teorico-metodologici diversi, in alcuni studi concentrati su singole comunità39 o su gruppi di comunità della stessa area40. In particolare, lo studio di Milano 2011 sulla comunità di Greci (AV), mostra come l’approccio allo «spazio» comunicativo – sulla scorta di Krefeld 2002, Krefeld 2002b, D’Agostino 1995, D’Agostino 2006 – sia un’efficace chiave interpretativa dei comportamenti sociolinguistici (attraverso le competenze, gli usi, le percezioni) dei parlanti arbëreshë.

Ovviamente, la configurazione dello spazio comunicativo nelle comunità italo-albanesi – così come di tutte le minoranze linguistiche41 – è basilare per le problematiche relative alla «vitalità», interna (linguistica) ed esterna (sociolinguistica), delle varietà (e delle comunità) a «rischio di estinzione», anche nella prospettiva delle eventuali pianificazioni volte alla «tutela» e alla «rivitalizzazione» linguistica. Benché all’approccio teorico-metodologico, oltre che terminologico, su tali questioni abbiano contribuito nel tempo numerosi studiosi e la bibliografia sull’argomento – anche in applicazione a specifiche realtà linguistiche – sia oggi piuttosto estesa, le problematiche relative alla «vitalità» delle varietà “non-alte” dei repertori linguistici restano piuttosto complesse42, e sarebbero, pertanto, fuorvianti indicazioni che sinteticamente e generalmente possano valere, a questo proposito,  per le varietà e/o le comunità arbëreshe nel loro complesso.

In linea generale, non si può non ammettere che anche queste, come tutte le varietà di minoranza, sono sempre più fortemente «a rischio di estinzione», ma non si può non osservare, altresì, che il grado di «vitalità», specialmente quella «esterna» – relativa alla «distribuzione e presenza della lingua negli usi, nei domini, nelle reti e nelle pratiche sociali, e di assolvimento di una gamma di funzioni nella comunità parlante» (Berruto 2011: 291) – sia fortemente differenziato da comunità a comunità (le quali presentano differenti tassi di albanofonia, sia in relazione alla presenza più o meno forte e competitiva di gruppi esogamici e misti, sia in relazione ai differenti indici di trasmissione intergenerazionale della varietà nativa nei gruppi edogamici) e da gruppo sociale a gruppo sociale, per la cui configurazione non basterebbero i soli parametri diastratici classici del sesso, dell’età e del livello di istruzione.

Anche relativamente alla correlazione tra i due ordini della «vitalità» («interna» ed «esterna», ancora secondo le indicazioni di Berruto 2007c, Berruto 2009b e Berruto 2011), nelle comunità arbëreshe essa potrebbe non mostrare un’implicazione proporzionalmente diretta (ossia a una maggiore vitalità esterna corrisponde una maggiore vitalità interna), se la vitalità interna è intesa come grado di conservazione delle strutture linguistiche e non nel senso terraciniano, per il quale, invece, «la pienezza vitale si manifesta quando una lingua è liberamente aperta alla grande sorgente della mescolanza linguistica» (Terracini 1957: 2016).

A questo proposito, per esempio, si è già osservato, relativamente a alcune dinamiche sociolinguistiche in contesto siculo-albanese (cfr. Matranga 2015d: 405), come sia «la “rurale” Contessa Entellina [con un basso grado di vitalità esterna43] a “conservare” meglio i filtri dell’adattamento morfosintattico, mostrandosi meno disposta a aprire le maglie alla fusione interlinguistica. Tuttavia, è proprio la vittoria di battaglie come questa che, a mio avviso, potrebbe contribuire a fare perdere agli Arbëreshë di Contessa la guerra contra la definitiva assimilazione linguistica già avvenuta in altre comunità italoalbanesi. Gli albanofoni di Piana degli Albanesi [che presenta una configurazione socio-economica più “urbana” rispetto a quella di Contessa Entellina e un’albanofonia ben più diffusa anche tra i più giovani], invece, sembrano in grado di difendere meglio la loro identità etnica e linguistica, non tanto attraverso una «resistenza consapevole», quella legata a correnti di pensiero e a opinioni, quanto proprio con forme di «resistenza automatica», spontanee e inconsapevoli, che oggi si aggiornano forse proprio adottando disinvolte strategie comunicative molto aperte al “compromesso”, per cosi dire, alla fusione linguistica, oltre che al mistilinguismo, adeguando elasticamente a questo scopo perfino parti vitale delle strutture morfosintattiche della varietà linguistica locale».

5. L’albanese a scuola

Particolarmente dopo l’approvazione della nota Legge 482 del 1999, anche nelle comunità arbëreshe – finalmente riconosciute tra le «minoranze linguistiche storiche» degne di tutela da parte dello stato italiano – si è intensificata, insieme a altre attività44, quella di riflessione, da parte di studiosi arbëreshë e non, sui principi che avrebbero dovuto guidare la preparazione degli strumenti didattici da adottare nell’attività di insegnamento dell’albanese nelle scuole dell’obbligo45.

Ovviamente, le complessità emerse per le altre realtà alloglotte italiane nell’ambito delle esperienze di pianificazione linguistica –  e particolarmente nella prospettiva, spesso avvertita come prioritaria, quando non obbligatoria, di individuare e formalizzare modelli linguistici di riferimento da proporre, se non da imporre, nelle scuole46  – presentano specifiche declinazioni nell'approccio alla realtà italo-albanese, in ragione delle sue peculiarità storiche, linguistiche e culturali.

Tra i partecipanti al Seminario che, all’indomani dell’approvazione della legge, si tenne a Piana degli Albanesi47 – emerse piuttosto chiaramente la prospettiva di «guardare alle nostre comunità non tanto come presunte ultime depositarie di un lingua e di una cultura del passato, in via di sparizione, ma a occasioni reali di crescita e di sviluppo per vivere pienamente la modernità dell’Europa multiculturale e multilingue oggi» (Altimari 2000: 16). Anche sul modello linguistico da perseguire, fu esplicita la posizione espressa da Savoia 2000: 35-36, secondo il quale «Orientandosi verso la varietà locale la scuola ha l’occasione di rispecchiare contenuti di libertà e di tolleranza senz’altro innovatori per le nostre istruzioni. Al contrario, il ricorso allo shqip [la lingua standard albanese] o a koinai artificiali riprodurrebbe la stratificazione di valori e gli schemi diglossici corrispondenti ai rapporti di potere all’interno della società […] In questa prospettiva, l’insegnamento dell’arbëresh e l’atteggiamento della scuola dovrebbero valorizzare l’arbëresh in quanto lingua viva e effettivamente parlata». Anche in presenza di prestiti lessicali dell’italiano e dei dialetti italo-romanzi – che costituiscono un importante condizione di specificità delle varietà arbëreshe –, dunque, «può essere ragionevole preferire nell’impiego scolastico la forma tradizionale, quando se ne abbia memoria o, nel caso più favorevole, esista il sinonimo albanese nell’uso corrente, anche se arcaicizzante. Altrimenti risulta naturale adottare la varietà locale coi suoi caratteri innovativi, considerandoli appunto per quello che sono: non degenerazione, ma innovazione e sintomo di continuità e funzionalità del sistema linguistico».

Nonostante ciò, il primo manuale di lingua48, pubblicato nell’ambito dello stesso progetto comunitario denominato Skanderbeg 300049, presenta un modello linguistico fortemente orientato sullo standard albanese (shqip). Decisamente più rispettoso della varietà locale (di Piana degli Albanesi), benché non senza tratti di normalizzazione e con strategie volte alla riduzione dei prestiti italo-romanzi, è invece il manuale che lo stesso Comune di Piana degli Albanesi editò appena un anno dopo50.

La questione dell’albanese, e di quale albanese, nell’ambito scolastico arbëresh è oggi maggiormente articolata – rispetto agli anni immediatamente successivi all’approvazione della 482 del 1999 –  come  mostrano particolarmente i diversi interventi che, a questo tema, ha dedicato il decano degli albanologi arbëreshë, Francesco Altimari. Egli affronta la questione coniugando aspetti più propriamente linguistici (relativi ai rapporti strutturali tra varietà locali, «lingua comune» e lingua standard) con altri che impegnano opportunamente retrospettive storico-culturali e prospettive didattiche. A suo avviso,

«l’uso nel provvedimento normativo dell’espressione “lingua di minoranza” non può autorizzare un’interpretazione “restrittiva” di essa da intendere come lingua locale o “localistica”, circoscrivendo la lingua su cui operare al solo codice orale sopravvissuto nei secoli di “resistenza” all’ombra dei rispettivi campanili […] Le differenze linguistiche anche marcate, che pure si registrano all’interno dell’arbëresh tra le sue varianti locali, da una parte, e tra loro e l’albanese standard, dall’altra, non appaiono di per sé determinanti, né sufficienti per spingere a ipotizzare la trasformazione della variante dialettale arbëreshe ad Ausbausprache […] In tale contesto l’arbëresh parlato […] ha bisogno come lingua scritta della “lingua-tetto” dell’albanese comune […] una sorta di albanese standard allargato, comprendente alcune specificità comuni del sistema morfosintattico e lessicale dell’albanese più arcaico, oggi rintracciabili sia in area tosca (dialetti arbëreshë e dialetti ciami e labi), sia in area ghega» (Altimari 2007: 75-77).

Più articolatamente, dunque,

«L’ipotesi di trasformazione dell’arbëresh a Ausbauprache, distaccato dal macrosistema dell’albanese, è linguisticamente insostenibile e politicamente irrealizzabile. […] In ogni caso, la distanza esistente tra l’abanese d’Italia e l’albanese standard, entrambi a base tosca, non risulta essere affatto strutturale, non coinvolgendo sostanzialmente né la fonetica né la grammatica di base, ma il solo lessico. Non c’è dubbio però che ci si debba confrontare con tale distanza, che non rappresenta certamente una questione di linguistica o di politica linguistica, come è stato più volte ingenuamente e erroneamente riproposto, ma un problema didattico da porre e da risolvere all’interno di una strategia pedagogica attenta alle ragioni del plurilinguismo e del pluriculturalismo, che porti il discente nella scuola di base delle aree minoritarie arbëreshe a sviluppare gradualmente, attraverso appropriate metodologie, la sua competenza comunicativa, tenendo conto delle sue conoscenze linguistiche già acquisite e di tutte le lingue in uso nella comunità (arbëresh, dialetto romanzo, italiano). In altre parole, occorre proporre all’alunno arbëresh che ha sempre vissuto in una situazione di bilinguismo composito (o bilinguismo “zoppo”, come espressamente è stato definito), un’educazione linguistica che punti a garantirgli un'effettiva condizione di bilinguismo paritario. Per raggiungere tale obiettivo occorre innanzitutto consolidare la sua competenza verbale di partenza, sia ricettiva che produttiva, che non può prescindere dall'arbëresh parlato all'interno della famiglia della comunità di appartenenza. Nel passaggio dall'oralità alla scrittura, si terrà conto, nella prima fase, dell'albanese conosciuto dall'alunno, valorizzando la sua competenza linguistica già acquisita sia a livello orale, attraverso la varietà dialettale arbëreshe della comunità e, possibilmente le altre varietà dialettali arbëreshe presenti nell'area, sia a livello scritto, utilizzando i documenti linguistici e letterari. Si passerà quindi, nella seconda fase, a illustrargli le differenze esistenti tra le varietà dialettali albanesi – sia quelle arbëreshe che quelle balcaniche –  perché partendo dalle varianti linguistiche e dall'eteroglossia dialettale possa prendere coscienza dell'unitarietà di fondo che caratterizza il sistema linguistico dell'albanese comune. Con questi presupposti, si potrà, quindi, adottare nella terza fase, quale lingua-tetto delle cinquanta varietà dialettali arbëreshe parlate in Italia, l'albanese comune, che sarà sostanzialmente incentrato sul modello ortografico, fonologico e morfologico dell'albanese standard, ma con una certa flessibilità normativa» (Altimari 2007: 78).

6. Etnotesti

  1. Piana degli Albanesi (PA)

Ishëm katr, pes vet. Pran gjejëm një vend adatu, ca… te një strat çë ngë ish ne qankat ne mosgjë, çë ish bot. Luajëm te Shën-Janji o vujëm… te një strat ç’ish po bot, e luajëm një orë, di orë. Bujëm turnelin me singun, me… jo me… me… me si i thonë?... me mashkar o me is! E bujëm me… me picocarin. Picocari ngë buj singun ku shkoj? E bujëm, belu, një tundu tundu, si un… çirkonferenca si një metr, di metre, tundu tundu. Vuheshëm tundu tundu gjith e nganjeri shtij boçën brënda sturnelit (i thëshjëm… ki ë ‘sturneli’, jo ‘turnel’, ki ish ‘sturnel’). E alura shtijëm boçën te sturneli e na mën’… na mën’ pilluniarjëm sempri rtë [ktë] boç, amidora. Ananadora te turneli ng’e shtijëm kuasi kurr, përçë t’e shtiesh shtu po sa  luaj, ngë mën’ kafularje të buje objetivu te boça, të ja pilluniarje, e kapirë?

  • E kur e shtijët ananadora çë jok bujët me boçt, kur shtihej ananadora?

Jo… ananadora ish un pasatempu! Bujëm singun e luaj… çila luaj më pine, çila ndurisj më shumë. E rto [=kto] ishën, kapirë? Ngë ish…

  • E kur ish ashtu, çë flëj… çë flëj…çë boça ish…?

Pinia...

  • Kur ish boça pine…

… «flë, flë, flë boça! Vrej si flë!». E zëjëm e flëj te dora shtu «vuuuuuuuu», pë… pë… pë di minute, pë nj’minut, shtu, flëj sempri te dora. E zë… me rtë [=ktë] glisht i buje shtu (fa uno scatto col dito medio) e ajo vij te dora e buj «shuuuuuu» e flëj te dora. «Vrej, vrej si flë dora… te dora!». E rrij. Më’ ndurisj një minut? Gjims minuti? E pra (sosj). Ngë se furrjarj shumë! Kapirë? Fina sa… sekundu si e shtije boçën. Ki veloçita kish. Ish ai çë ish më preçisu e e shtij më me fuqi, furrjune buj… xhiri buj më shumë, boça, e nduirisj më shumë. E kapirë? Ai ç’e buj më lentu ndurisj më pak, opuru ngë furrjarj, boça. Pr’esempju, kur rrumanelin ng’e shtrëngoje mirë e ng’i jipje, thomi shtu, tirantunin fort. Boça kur i (jip…) fort e preçisu, si pujarj piskej. Buj: «vrej si pi… si u pisk boça!» E piskej, boça. Skurse ngë furrjarj ish. Furrjarj fort fort fort fort çë manku çë dukej. Però, ashtu ki’ t’ ish kur picocari ish gjushtu e di’ t’ e shtije.

Eravamo in quattro o cinque persone. Poi trovavamo un posto adatto, un po’… in una strada che non [vi] era né basolato né altro (lett. né niente), che [vi] era terreno [sodo]. Giocavamo nel [quartiere di] San Giovanni o mettevamo… in una strada che c’era solo terra [soda], e giocavamo per un’ora o due ore. Facevamo il cerchio (qui turnel) con il segno, con… con… con come si dice? con nerofumo o con gesso! Lo facevamo con.. con la punta della trottola. La punta della trottola non faceva il segno dove passava? E [quindi] facevamo, per bene, un [cerchio] tondo tondo, come un... circonferenza di [circa] un metro, due metri, tonda tonda. Ci mettevamo attorno tutti e ciascuno lanciava la trottola dentro il cerchio  (qui sturnel). [Così] lo chiamavamo. Questo si chiama sturnel non turnel. Questo era [chiamato] sturnel. E allora lanciavamo la trottola nel cerchio nel tentativo [lett. se potevamo]… nel tentativo di scheggiare [colpendola con la punta delle trottola] sempre questa trottola [dell’avversario lanciando la nostra con forza] dall’alto (lett. ‘da man sopra’).  ‘A man sotto’ nel cerchio non la lanciavamo quasi mai, perché a lanciarla così [la trottola] poteva solo girare (lett. giocare’), non potevi assestare il colpo per fare bersaglio (lett. ‘obiettivo’) della trottola [dell’avversario] per scheggiarla, lo capisci?

  • E quando la lanciavate ‘a man sotto’ che gioco facevate con le trottole, quando lanciavate ‘a man sotto’?

No… ‘a man sotto’ era un passatempo! Facevamo il segno [per terra] e giocava... a quale girava (lett. giocava) più pine (= ben equilibrata rispetto all’asse di rotazione], a quale durava di più [nel girare]. Questi erano [i giochi], capisci? Non era…

  • E quando era così… che ‘dormiva’… che ‘dormiva’… che la trottola era…

La ben equilibrata’…

  • Quando la trottola era ‘ben equilibrata’…  

… «Dorme, dorme, dorme la trottola! Guarda come dorme!» La prendevamo e dormiva sul [palmo della] mano, così «vuuuuuuuuu», per… per… per due minuti, per un minuto, più o meno (lett. ‘così’), dormiva sempre sulla mano. La prend… con questo dito le facevi così ((fa uno scatto con il dito medio)) e quella veniva sulla mano e faceva «sciuuuuuu» e dormiva sulla mano. «Guarda, guarda come la mano… sulla mano!» E rimaneva [ritta]. Poteva durare un minuto? Mezzo minuto? Dopo finiva. Non è che girava [per] molto [tempo]! Capisci? Fin quanto… a seconda di come la lanciavi, la trottola. [A seconda di] che velocità aveva. C’era quello che era più preciso e la lanciava con più forza, [allora] giri (qui furrjune) ne faceva… giri (qui xhiri) ne faceva di più, la trottola, e durava di più. Lo capisci? [A] colui che la faceva [girare] più lentamente durava di meno, oppure non girava, la trottola. [Questo poteva accadere], per esempio, quando la funicella non la stringevi bene o non le davi, diciamo così, lo strattone fortemente. La trottola quando le davi… [la lanciavi] fortemente e con precisione, appena toccava terra [lett. ‘posava’) ‘si rapprendeva’ (= girava tanto vorticosamente da sembrare ferma). [In questo caso] dicevamo (lett. ‘faceva’): «guarda come ra… come ‘si è rappresa’ la trottola!». E ‘si rapprendeva’, la trottola. Era come se non girasse. Girava così fortissimamente che neanche si vedeva [che girasse]. Però, questo avveniva (lett. ‘in questo modo doveva essere’) quando la punta era giusta e [la trottola] sapevi lanciarla [bene].

 

2. Contessa Entellina (PA)

Tortulla isht bër druri e ish si një pall tundu. Però përposh ka si një pic hekuri, çë ki pic shurben sa mënd e furrjarënj. I vëhej llaci, gjis [=ghith] furrjartur fina te gjimsa, poi vëhej te dora e shtihej. Tortulla e vogël furrjarj më pak, përçë llaci ish m’i vogël; tortulla e madhe, inveçi, furrjarj më shum, se llaci ish m’i glat. Però kur shtihej te reu [=dheu], çë mënd e furrjarj te çirku çë bëhej te reu [dheu], ai çë ish më… m’i mir sa’ lozj, çë ish më pratiku, tortulla mënd e ndurisj më shum atje brënda e mënd e rrij më shum; ai çë ish më shpratiku bij subitu te reu [=dheu], përçë ajo vij… Tortulla kur furrjarj shum, çë një ish pratiku, çë di’ t’e shtij mir, tortulla vjen e qëllonet. E rrij... dukej se rrij ferma, ma ajo furrjarj. E na i soshjëm [=thoshjëm] se qëllonej kjo tortull. Poi bëjëm  se shtijëm pameta kush mënd e zëj di sipr. Cioè, i jipjëm tortullatën: me picin kish t’e zëjë di sipr sa  ajo bij te reu [=dheu] e kish furrjarj ajo e tija. E kështu jicjëm, e lozjëm sempri kështu.

Kush ish poi çë bëj se nde’ ndrroj jok, bëjëm se e shtijëm e tortullën… i jipjëm një kopane nxuta, na. Një kopane nxuta, tortulla vij apresu. Però furrjarj, ajo, tisu, e vij apresu neve. Però e bëjëm  kur ish reu [=dheu] më lishu, çë ngë ishën gur e zbise. Kur e shtijëm ashtu, ç’i hilqëm, i soshjëm [=thoshjëm] nxuta, na, ç’e shtijëm di përposh, ng’e shtijëm di sipr. E ajo vij apresu. çioè furrjarj tundu tundu, però jicj gjiri teku ishëm na  e ish njetr jok çë bëjëm ki.

Virena [vidhena] bëjëm se e shtijëm alangapu kur? Kur ki’ shtijëm te çirku vetëm, alangapu! Inveçi, kur ki’ lozjëm sa t’e shihiëm se na vij apresu neve e shtijëm ashtu. E kur e shtijëm nxuta ajo qëllonej më shum, përçë jicj apresu e poi mbahej. Però, ngë mbahej sa’ furrjarj. Rrij sempri tisu. Rrij tisu, e shihiëm se ajo poi zë’ e tundej dica – e na e soshjëm [=thoshjëm] trotullar –  e bij te reu [=dheu]. E ashtu sosj joku çë bëjëm.

E kur tortulla ish çë ngë furrjarj mir, çë ngë rrij belu a qumbu ashtu, ish se picin, kute shtën te reu [=dheu], ju ki’ shtrëmbuar. E na, o i diljëm atë e i vëjëm njetr i ri opuru ja ndreqjëm fina çë ajo na rrij mir.

E kështu kontinuarjëm sempri joket e tortulls.   

La trottola era fatta di legno ed era come una palla rotonda. Però, sotto ha una punta di ferro che (questa punta) serve per farla girare. Le si metteva la cordicella tutta girata fino alla metà, poi si metteva nella mano e si lanciava. La trottola piccola girava di meno, perché la corda era più corta (lett. ‘piccola); la trottola grande, invece, girava di più, ché la corda era più lunga. Però quando (la) si lanciava per terra, che [la] si faceva girare nel cerchio che si faceva per terra, quello che era più… più bravo (lett. ‘migliore’) a giocare, che era più pratico, faceva in modo che la trottola girasse più a lungo (lett. ‘che durasse di più’) lì dentro [il cerchio], e la si faceva stare di più [dentro il cerchio]; [a] quello che era più inesperto [la trottola] smetteva subito di girare (lett. ‘cadeva subito a terra’), perché quella veniva… La trottola, quando gira molto [vorticosamente], ché uno era pratico, che sapeva lanciare bene… la trottola viene ad ‘addormentarsi’. E stava… sembra che stava ferma, ma girava. E [in questo caso] noi (ci) dicevamo  che ‘si addormentava’, questa trottola. Poi (facevamo che) lanciavamo [la trottola] nuovamente, [per giocare a] chi poteva colpirla [con un lancio] ‘da sopra’. Cioè, le davamo un colpo di trottola (lett. ‘una trottolata’): con la punta la [si] doveva colpire da sopra, affinché (lett. ‘quanto’) quella smettesse di girare (lett. ‘cadesse a terra’) e girasse (lett. ‘doveva girare’) quella propria. E così camminavamo e giocavamo sempre così.

Chi (era) poi (che faceva che) voleva cambiare gioco, (facevamo che) la lanciavamo e la trottola… le davamo colpi ‘da sotto’, noi. Un colpo ‘da sotto’ [e] la trottola [ci] veniva dietro. Però girava, quella, ritta, e veniva dietro a noi. Però [questo gioco] lo facevamo quando c’era il terreno più liscio, che non c’erano pietre ed [altre] cose. Quando la lanciavamo in quel modo, che la attiravamo, (ci) dicevamo [che il colpo era] ‘da-sotto’, (noi) ché la lanciavamo da sotto, non la lanciavamo da sopra. E quella [ci] veniva dietro. Cioè, girava attorno attorno [a se stessa], però camminava verso dove eravamo noi. Ed era un altro gioco che facevamo, questo.

Inoltre (facevamo che) la lanciavamo ‘da sopra’ quando? Quando dovevamo lanciare nel cerchio solamente, [la lanciavamo] ‘da sopra’! Invece, quando dovevamo giocare a farci seguire dalla trottola (lett. ‘a vederla che vi veniva dietro a noi) la lanciavamo in quel modo. E quando la lanciavamo ‘da sotto’ quella si ‘addormentava’ di più, perché camminava dietro [di noi] e poi si fermava. Però non smetteva (lett. ‘si fermava’) di girare. Stava sempre ritta. Stava ritta, e lo vedevamo noi che quella incominciava a muoversi un poco –  e noi dicevamo [che] ‘barcolla’ (lett. ‘trottola-re’) – e [poi] smetteva di girare (lett. ‘cadeva a terra’). E in quel modo finiva il gioco che facevamo.

E quando la trottola (era che) non girava bene, che non era ben a piombo (in quel modo), era perché la punta, gettandola [continuamente] a terra, si era storta. E noi [allora], o le toglievamo [lett. ‘uscivamo’] quella [punta] e le mettevamo un’altra nuova oppure gliela raddrizzavamo finché (quella) ci stava bene.

E così continuavamo sempre i giochi della trottola.

 

3. Greci (AV)

Per esempju, tata, tata im, ruaj lopt me garxunt e… ai  ng’a pa, ma ish çë vej natënët jasht, ka një dhe, ka një udh, kishën vrar një burr. Però tata nëng a dij. Kur arrù ka ai cik, pela nëg’i vej ne para e ne prapa. Ma thoi tata, thoi, «ma çë suçëdhoqi?». Ajo zbrufoj,  ngrëj kembt (.) autu. Psana tata i hojti një bot me skurjatinë e arrù ka masaria ku ish me garcunt. E i tha… patruni tha …  –   pela ish gjith a ndërsijtur – tha: «ma çë bëra?”» tha «çë do’ bënja?» tha «kur arrura ka ajo udh… (na i thomi cruçvia, çë ishën di, tre, udh: një vej atej, një…) pela nëng do vej para, ne para ne prapa». Tha «madhona!», tha, «ai pa atë çë vraqin atje!» E ahera tata u trëmb puru ai. Tha «madhona!», tha «u nëng’a pe!». Tha: «ti nëng’a dinja, ma pela a lgoqi!». Arru çë shkulloj, pela, ghaq çë u trëmb! Tata a thoi sempru.

Per esempio, mio padre badava alle vacche con i garzoni e.... lui non sapeva di quest’episodio avvenuto qualche tempo prima (lett. ‘lui non l’ha visto’), ma [una volta] stava andando di notte fuori, in una contrada (lett. ‘terreno’), in una strada, [dove] avevano ucciso un uomo. Però, mio padre [questo] non lo sapeva. Quando arrivò in quel posto, la giumenta non (gli) voleva andare né avanti né indietro! E diceva mio padre… diceva: «ma che cosa è successo?» Lei (=la giumenta) sbruffava, alzava le zampe in alto. Quindi mio padre le diede un colpo con lo scudiscio e arrivò alla masseria dove lavorava [lett. ‘era’] con i garzoni. E gli disse… il padrone disse… – la giumenta era tutta sudata –… disse: «cosa hai fatto?». [Mio padre] disse: «cosa vuoi che abbia fatto? Quando sono giunto in quella strada – che noi chiamiamo “crocevia”, dove ci sono due, tre strade: una strada va da una parte e una dall’altra – la giumenta non voleva andare avanti! Né avanti né indietro!» [Il padrone] disse: «Madonna! ha visto quell[‘uomo] che avevano ucciso lì!». Allora, mio padre si spaventò anche lui. Disse: «Madonna! Io non sapevo (lett. ‘non l’avevo visto’) [di quella uccisione]! [Il padrone gli] disse: «tu non lo sapevi, ma la giumenta l’ha capito!» Giunse [alla masseria] che grondava [di sudore], la giumenta, per lo spavento! Mi padre lo raccontava (lett. ‘diceva’) sempre.

 

4. Vena di Maida (CZ). Estratto dal docu-film di Eugenio Attanasio Gangale. Presenze arbëreshe a Marcedusa (prodotto nel 2018 dalla Fototeca della Calabria e dal Comune di Marcedusa) sulla mirabile opera di documentazione etnolinguistica effettuata, tra 1959 e il 1977, da Giuseppe Tommaso Ganagale in alcune comunità arbëreshe della Calabria.  

Per un sintetico quadro storico-culturale della presenza albanese in Italia, cfr. Altimari 1994.
Tra gli studi più significativi su questi aspetti, cfr. per la Calabria, Zangari 1940, De Leo 1981; per la Sicilia, Giunta 1984 [1974], Mandalà 2017.
Nel censimento del 1921, risultano 80.282 coloro che dichiararono di parlare l’albanese.
Alcune inchieste più recenti, condotte su aree circoscritte o su singole comunità, indicano altre e differenziate percentuali: mediamente il 62% a Contessa Entellina (cfr. Ruffino 1983); mediamente il 91% a Piana degli Albanesi (cfr. Matranga 1989, su dati del 1987); il 78% dei parlanti delle Valle del Crati (cfr. Birken-Silverman 2000, su indagini del 1989-1992); il 94% tra gli anziani di Greci (cfr. Milano 2010); il 71% a Ururi, il 62% a Portocannone, il 21% a Chieuti e il 2% a Campomarino su indagini del 2011 (cfr. Perta 2012).  Occorre tenere conto che queste percentuali, risalenti ad anni diversi e che rappresentano perlopiù computi complessivi sulla base di risposte autovalutative, non possono essere assunte come dati effettivi dell’albanofonia nelle comunità indagate, né ci garantiscono una loro oggettiva comparabilità considerato che le indagini sono state condotte, anche con metodi diversi, su campionature differenti.
Si veda, tuttavia, infra § 3.
Per la trascrizione delle forme arbëreshe si userà l’alfabeto  albanese che presenta, per la maggior parte dei fonemi, puntuali  corrispondenze con i grafemi dell’alfabeto italiano. Per i grafemi e i digrammi corrispondenti a pronunce diverse o non presenti nel sistema  italiano, si considerino le seguenti relazioni fonematiche: c /ʦ/, ç  /ʧ/, dh/ð/, ë /ə/,g/g/, gj/ɟ/, h/x/, j/ʝ/, k/k/, ll/ɫ/, nj /ɲ/, q /c/, s/s/,sh /ʃ/, th /θ/, x/ʣ/, xh/ʤ/, y/y/, z/z/,zh/ʒ/. Si userà, inoltre, gh [ɣ], hj [ç], ʎ [ʎ] occorrenti in alcune  varietà dialettali.
Sulla comparsa di questo etnonimo, cfr. Mandalà 2009.
Per il caso di Greci, cfr. Di Salvo 2010b.
Sulla base di questo ceppo dialettale è sostanzialmente costruito anche  l’albanese standard.
La linea di demarcazione tra i due principali ceppi dialettali dell’albanese è solitamente segnata dal fiume Shkumbini. Non mancano, ovviamente, al di qua e al di là di questo confine, aree dialettali di transizione (cfr. Gjinari/Shkurtaj 1997).
Le prime attestazioni scritte dell'albanese risalgono al sec. XVI.
Più opportunamente, esse proverrebbero da diverse contrade balcaniche dell’Impero bizantino, in parte già sotto dominio turco-ottomano, corrispondenti a regioni della attuale Albania e della Grecia, sia insulare che peninsulare.
A questi territori ci portano, per esempio, cognomi italo-albanesi quali Gazullus, Plescia, Riolo, Scutari, Span e altri.
All’Albania centrale ci portano cognomi quali Chetta, Gramsci, Manes, Matranga, Miraco, Musacchi, Polisi, Rada, Scura, e altri.
Albanesi meridionale sono i cognomi Barbaci, Borsci, Bua, Cacosi, Capparelli, Cràvari, Cuci, Cudes, Damis, Dramis, Dirmì, Dorsa, Dragotta, Glava, Gliossia, Groppa, Jerbes, Licursi, Lopes, Loscia, Luci, Petta, Picchierri, Pìllora, Reres, Spata, Stamati, Strati, Tanassi, Varfi e altri.
Uno dei più noti canti tradizionali italo-albanesi fa esplicitamente riferimento alla Morea (oggi Peloponneso), quale territorio abbandonato dai profughi: O e bukura Morè / si të lash më ngë të pash… (con diverse varianti) o ‘Oh mia bella Morea / come ti lascia più non ti rividi…’
Cfr. ADGjSh, vol. I, harta 18, p. 86.
La questione della formazione del futuro nell’albanese e la relazione tra i due tipi di costruzione è, tuttavia, ben più complessa, come mostra Altimari 2014 e Altimari 2014b.
Per Pellegrini 1994: 114, tuttavia, «tali forme non debbono in questo caso considerarsi “gheghismi”, ma semplicemente forme arcaiche».
Un primo tentativo classificatorio è quello di Solano 1979 (v. anche fig. 2), il quale – sulla base del comportamento di alcuni nessi consonantici – ha suddiviso le parlate arbëreshe in tre grandi gruppi definiti come area conservativa, area mista ed area innovativa (con altre due sottoclassificazioni interne). Più articolato è lo studio di Savoia 1991 volto a definire aree linguisticamente omogenee incrociando dati fonetici, morfologici e lessicali.
La pertinenza fonologica della durata della vocale tonica è oggi meno diffusa rispetto a quanto risulta dai testi degli scrittori più antichi.
A Contessa Entellina, tuttavia, la laterale postconsonantica si presenta come palatale (pλak ‘vecchio’, pλot ‘pieno’, bλuanj ‘macinare’, bλe ‘comprare’ fλas ‘parlare’, fλë ‘dormire’ ecc), così come, del resto, in altri contesti fonetici (per es., λuλe ‘fiore’, λum ‘fiume’, kaλ ‘cavallo’, ecc.)
Cfr. Birken-Silverman 2000 per le varietà della Valle del Crati; Savoia 2010 per Vena di Maida (CZ) e Ginestra (PZ); Matranga 2018a e Matranga in stampa b, rispettivamente, per il lessico agropastorale e per il campo semantico degli animali della parlata di Piana degli Albanesi.
Sui prestiti verbali romanzi nelle varietà nell'italo-albanesi cfr. Altimari 2010b.
I prestiti italo-romanzi delle varietà arbëreshe sono dunque una fonte preziosa per lo studio di tratti  problematici, sul piano delle ricostruzione storica, delle varietà italo-romanze. Cfr., a questo proposito, Matranga 2018b.
Cfr., a questo proposito, Matranga 1995
Per ulteriori riferimenti a questo tratto linguistico, cfr. Matranga 2015d: 404-405
Su alcune relazioni  tra prestiti lessicali e code mixting in varietà italo-albanesi, cfr. Baldi/Savoia 2016.
Su altri tratti riconducibili all’influenza dell’italiano nelle varietà italo-albanesi cfr. Shkurtaj 1994.
Cfr. Telmon 2015.
Cfr., per es., i dati riportati da Bitonti 2015 sulla comunità salentina di S. Marzano di S. Giuseppe, dai quali si evincerebbe – benché attraverso un campione molto ridotto e casuale di 24 giovani – che «Le famiglie endogamiche rappresentano il 58%, mentre quelle esogamiche il 42% del campione».
Si veda, a questo proposito,  Berruto 2007c: 20, il quale assume tra i criteri distintivi dei «Tipi sociolinguistici di bilinguismo (sociale)» anche quello di «monocomunitario vs. bicomunitario», che combacia con la distinzione tra close-knit e diffuse operata da White 1991 sulle strutture interne comunitarie. Diverse comunità italo-albanesi presentano articolazioni bicomunitarie evidenti, con le sottocomunità che tendono ad (auto)identificarsi anche in ragione del rito religioso: bizantino vs. latino. Esemplare è, a questo proposito, la comunità siculo-albanese di Contessa Entellina.
Cfr., a questo proposito, Matranga 1995. Varietà italo-romanze specifiche sono oggi parlate, invece, in quelle comunità nelle quali la varietà arbërshe è da tempo caduto definitivamente in disuso e nelle quali potrebbero emergere tratti del “sostrato” albanese. Così, per esempio, nella varietà calabrese di Gizzeria (cfr. Trapuzzano 2009), dove la realizzazione sonora [z] – per influsso albanese – della fricativa apicoalveolare intervocalica è percepita come tratto caratterizzate dalle comunità vicine. Anche sul piano lessicale non mancherebbero relitti albanesi nelle varietà romanze delle comunità non più albanofone. È il caso, per esempio, di kisuḍḍa “piccolo copricapo” (alb. kësula) della varietà calabrese di Cervicati, di lòcica ‘ghianda del cipresso’ (alb. loçka ‘ghianda’) della varietà siciliana di Mezzojuso, di tròmmisu ‘polenta/farinata di mais’ (corrispondente alla ndromza di Greci, con identico significato) nella varietà di Palazzo Adriano.
Come dimostra lo studio di Bugliaro 2018 su documenti dei secc. XVI-XVIII relativi all’area della Presila greca, il ruolo della donna è stato fondamentale nella trasmissione dell’albanese anche nelle famiglie miste. I dati proverebbero «la continua e crescente immigrazione nell’Arbëria della Presila di “lëtinj” (italiani), che sposandosi con donne arbëreshe e trasferendosi nella nuova realtà albanofona, diventeranno poi con i loro discendenti i “nuovi arbëreshe” che così rigenereranno e non indeboliranno la comunità» Altimari 2018: 16.
Per una sintetica descrizione delle «linee di svolgimento della letteratura arbërshe» cfr. Altimari 1986: 8-15.
Le varietà albanesi delle comunità arbëreshe restano, tuttavia, senza “copertura” (Überdachung) da parte dell’albanese standard e risulterebbe  pertanto – adottando ancora la terminologia di Kloss 1972b: 112 – una dachlose Aussenmundart (‘dialetto esterno senza tetto’). Cfr. anche Altimari 1983: 52.
Cfr., per esempio, Tessarolo 1990.
Su alcuni aspetti relativi alla «consapevolezza linguistica» in contesto italoalbanese, cfr. Matranga 2010.
Cfr., per esempio, l’approfondito studio su Greci nei diversi saggi pubblicati sul Bollettino Linguistico Campano 17 (2010) e 19/20 (2011), e particolarmente  Milano /Valente 2010, Milano /Valente 2010b, Milano 2010, Valente 2010, Milano 2011.
Cfr., per esempio, lo studio di Perta 2004 sulle comunità molisane.
E tale etichetta, che investe anche il piano legislativo, è – come mostra Telmon 2015 – tutt’altro che scontata.
Per alcune considerazioni sull’argomento, cfr. Berruto 2007c, Berruto 2009b e ancora Berruto 2011, il quale conclude il Convegno su Vitalità di una lingua minoritaria. Aspetti e proposte metodologiche (Bellinzona 15-16 ottobre 2010), affermando, a p. 300, che «Insomma, nell’insieme la problematica del nostro Convegno coinvolge un coacervo di questioni molto complesse, internamente sfaccettate e tra loro interrelate, nel cui groviglio non è facile, al momento attuale della ricerca, orientarsi con la necessaria decisione e sicurezza».
La conoscenza e l’uso della varietà arbëreshe in questa comunità sono oggi fortemente ridotti specialmente tra i giovani.
Attività volte alla promozione della lingua e della cultura albanesi, insieme a corsi di alfabetizzazione e insegnamento della lingua, non sono mancate tra le comunità arbëreshe anche prima dell’approvazione della 482/99. Oltre alle tante iniziative spontaee e volontaristiche (talvolta anche dilettantistiche), particolarmente attive si sono mostrate, anche su questo fronte, le cattedre di “Lingua e letteratura albanese” delle Università della Calabria e di Palermo, istituite (nel 1933 a Palermo, nel 1973 a Cosenza) proprio per la presenza nel territorio delle comunità italo-albanesi.
Su quest’ordine di questioni non sono mancante, anche per le realtà arbëreshe, riflessioni precedenti l’approvazione della 482/99. Cfr., particolarmente, Savoia 1989.
Per alcune problematiche relative anche a questo ordine di questioni cfr., particolarmente, Telmon 2015, il quale avverte, tra l’altro, la «smania di normalizzare, normativizzare, standardizzare, omogeneizzare le differenze linguistiche con la convinzione che tale atteggiamento, unito alla coercizione, sia l’unico possibile per garantire la sopravvivenza o la promozione delle lingue minoritarie». Tali approcci, che esitano nel  «sacrificio delle “minimanze”», sono stati particolarmente stigmatizzati da De Blasi 2010.
Il Seminario, per gli atti del quale cfr. AA. VV. 2000,  è stato organizzato nell’ambito del Progetto comunitario “Skanderbeg 3000”, proposto dal Comune di Piana degli Albanesi.
Il volume, affidato a più autori, porta il titolo di Udhëtimi ‘Il viaggio’ ed è stato pubblicato dal Comune di Piana degli Albanesi nel 2000.
V. nota n. 47.
Il manuale, ad opera del poeta Giuseppe Schirò di Maggio, è pubblicato nel 2001 e porta il titolo di Udha e mbarë! ‘Buon viaggio!’, formula augurale che, nonostante l’attenzione alla varietà locale posta dall’autore, è propria dell’albanese standard, ma non è in uso nella varietà di Piana degli Albanesi

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