Un profilo del sassarese

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Keywords: dialect , Italy , Sardinia , Sassarese

Citazione:
  1. Riferimento a tutto il contributo:
    Fiorenzo Toso (2019): Un profilo del sassarese, Versione 1 (20.10.2019, 18:49). In: Roland Bauer & Thomas Krefeld (a cura di) (2019): Lo spazio comunicativo dell’Italia e delle varietà italiane (Korpus im Text 7), Versione 90, url: https://www.kit.gwi.uni-muenchen.de/?p=48921&v=1
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Abstract

L’articolo (revisione e aggiornamento di un capitolo del volume La Sardegna che non parla sardo. Profilo storico e lingustico delle varietà alloglotte, Cagliari, CUEC, 2012)  contiene una sintetica descrizione del dialetto sassarese, presentando una proposta ricostruttiva relativa all’origine e allo sviluppo di questa varietà di impronta inequivocabilmente còrsa, ma praticata nella seconda città della Sardegna e nel territorio circostante. Viene posto in rilievo un diversificato influsso genovese che, già presente nella varietà importata dalla Corsica centro-occidentale e nel dialetto sardo al quale essa si sovrappose, contribuì a determinare la particolare personalità del sassarese, in passato ascritta, anche in seguito a condizionamenti di tipo ideologico, alle motivazioni più disparate. Il progredire delle conoscenze sulle parlate còrse, in particolare, e l’applicazione dei metodi della sociolinguistica storica, consentono ora di ridimensionare l’impressione di trovarsi di fronte a una varietà «mista», per quanto il gioco delle interferenze molteplici, anche in relazione al sostrato e all’adstrato sardo, abbia certo contribuito, e in maniera determinante,  alla formazione di un idioma del quale vengono sommariamente presentati, nell’articolo, anche gli aspetti salienti della realtà sociolinguistica contemporanea.

1. Introduzione

In merito al sassarese, alla sua genesi, alla sua posizione nel contesto linguistico sardo e persino alla sua collocazione nel panorama romanzo, per quasi due secoli sono state formulate le opinioni più disparate e sono state raggiunte le conclusioni più diverse (ora riassunte anche in Linzmeier 2019): spesso, inoltre, molti tra gli studiosi che se ne sono occupati, hanno cercato nel sassarese la conferma di ipotesi relative a problemi più ampi, o hanno addirittura proiettato su di esso, in maniera più o meno consapevole, il frutto di posizioni ideologiche nelle quali si riconoscevano. Il sassarese è stato così interpretato, di volta in volta, come una variante del gallurese (Spano 1840, 12-13) a sua volta visto, a seconda dei casi, come un dialetto sardo, toscano oppure còrso; o come un vernacolo italiano a se stante di derivazione sostanzialmente pisana1; o come una sorta di logudorese «degradato» a contatto con altri idiomi; o ancora, come una lingua mista2, e addirittura come un pidgin stabilizzatosi in una lingua creola (Sole 1999, 11; 59-61); lo si è voluto poi qualificare come varietà sociale, traendone le opposte conclusioni che si trattasse in origine di un dialetto «plebeo» oppure «borghese», ma senza trovare accordo sull’origine etnica della «plebe» o della «borghesia» che che ne sarebbero state portatrici3. Il sassarese ha insomma sollecitato la «curiosità» di molti, ma spesso tale interesse si è esaurito nello sforzo di confutare le opinioni altrui. Così, mentre l’idioma continuava a sviluppare il proprio percorso evolutivo e la sua vicenda storico-sociale, la vexata quaestio linguistica e filologica ad esso relativa sembra ancora lontana dall’avere trovato una soluzione unanimemente condivisa.

D’altronde, l’ipertrofia del dibattito non sembra nascere soltanto dall’interesse oggettivo di questa varietà: essa è dovuta anche al rilievo del sassarese in quanto idioma della seconda città della Sardegna, caratterizzata da un vissuto storico eccentrico, da un significativo rilievo come centro culturale, e dalla percezione che di essa hanno i sardi in generale, e la stessa popolazione locale, come luogo dell’alterità e dell’innovazione rispetto alla tradizione isolana: una vera e propria «porta» che da sempre mette l’isola in comunicazione con l'«altrove» continentale. L’alloglossia di Sassari non è vissuta quindi alla stregua di quella di Alghero o di Carloforte, piccole città «estranee», in certo qual modo, alla stessa definizione retorica della sardità, o di una Gallura rurale e «marginale», ma pur sempre coerentemente collocabile nel quadro di un panorama di frazionamento subregionale: la frattura linguistica tra Sassari e «li sardi di ri biddi»4 incarna quella più profonda, per certi aspetti drammatica, tra mondo rurale ed economia mercantile, fra cultura agro-pastorale e civiltà urbana, tra ripiegamento su saperi tramandati e apertura a conoscenze che circolano, rinnovandosi costantemente, all’insegna della contaminazione reciproca.

2. La formazione del sassarese e il suo contesto storico

Sgombrato una volta per tutte il campo dall’ipotesi di una sardità di fondo, la stessa che, sulla base di considerazioni prevalentemente extralinguistiche, aveva coinvolto per il passato anche il gallurese (Toso 2012, 23-26), le ragioni dell’alloglossia andranno ricercate, per quanto riguarda il sassarese, nello sviluppo storico del comprensorio e del nucleo urbano. Se per il gallurese il problema può essere ancora quello di fissare le date dei fenomeni demografici e socio-economici che comportarono la diffusione e l’affermazione di una varietà còrsa meridionale ai danni del sardo, per l’area turritana occorre chiedersi anzitutto quali erano le condizioni linguistiche sulle quali andò affermandosi l’alloglossia: l’utilizzo del sardo nella stesura a noi pervenuta degli Statuti di Sassari, in particolare, e le testimonianze di una sua relativa continuità d’uso in certi ambienti e contesti cittadini (Sole 1999, 39-40), non sono sufficienti né per postulare la «modernità» del sassarese, né per provare che esso, attraverso la sua «importazione», si sia semplicemente «sovrapposto» al logudorese.

Infatti, la storia del Giudicato di Torres prima, e poi di Sassari comunale e repubblicana fino all’avvento della dominazione aragonese, non consente di dare per scontato neppure quest’ultimo assunto: anche partendo dal presupposto che le condizioni dialettali di fondo fossero, nell’area turritana, assimilabili a quelle del retroterra logudorese, la presenza sul territorio dell'elemento continentale appare precoce (forse addirittura anteriore alla spedizione congiunta pisano-genovese del 1015-1016 contro gli arabi: Boscolo 1985), e poi radicata più che in altre parti della Sardegna. Qui forse più che altrove vale insomma la considerazione secondo la quale sull'isola

le situazioni di contatto linguistico [...] furono alla base di interferenze e influssi, anche se non si generalizzarono situazioni di dominanza delle varietà esterne, tipiche di realtà coloniali, al di fuori di aree circoscritte (Dettori 1994, 442).

Ciò significa che se nell’antico Giudicato non si generalizzò mai, verosimilmente, un qualsiasi volgare di tipo continentale, è probabile però che uno o più d’uno di essi si fossero diffusi in alcune aree del comprensorio, esercitando una durevole influenza sulle compresenti varietà sarde: è verosimilmente questo il contesto storico-linguistisco sul quale si verificò, successivamente, l’impianto sistematico dell’alloglossia.

Rimane in ogni caso difficile ricostruire le condizioni linguistiche dell'area turritana in età basso-medievale (secc. XI-XV). Giova tuttavia sottolineare, intanto, che la presenza politico-commerciale pisana, invocata spesso come causa principale dell’alloglossia sassarese, appare assai più discontinua e circoscritta di quella genovese (Pistarino 1981; Heers 1990): dal contado, già alla fine del sec. XII la potente famiglia ligure dei Doria (Petti Balbi 1976; Meloni 1988) non nascondeva le sue ambizioni di predominio sull’intero Giudicato (Gallinari 1997, 73-74)5; nello stesso periodo, Porto Torres era avamposto del Comune genovese, e lo divenne più stabilmente a partire dal 1238 (Sole 1999, 43); quanto a Sassari, malgrado una presenza significativa, risalente almeno agli anni Trenta del Duecento, un effettivo controllo da parte di Pisa si ebbe solo a partire dal 1276, dopo l’assassinio di Michele Zanche, ultimo giudice di Torres, e l’istituzione del libero comune sotto protettorato toscano: ma già a partire dal 1288, dopo la disfatta della Meloria (1284), i pisani dovettero cedere il controllo della città ai genovesi, che lo consolidarono a partire dal 1294, quando Sassari si costituì in Repubblica confederata a Genova (Origone 1981) in seguito a un accordo col quale «entrò a far parte del “commonwealth” ligure vedendosi riconoscere immunità e benefici riservati ai cittadini genovesi» (Gallinari 1997, 78). Alla stessa epoca risalgono come è noto gli Statuti promulgati sotto il podestà ligure Cavallino de Honestis (Tola 1850; Guarnerio 1902-1905). Se è poi vero che a partire dal 1323 la città passò formalmente (come il resto dell’isola) sotto la corona aragonese, è altrettanto vero che alcune tra le maggiori consorterie familiari genovesi restarono a lungo protagoniste della vita politica e amministrativa del Turritano e dell’Anglona: furono proprio i Doria, anzi, con l'appoggio questa volta del Comune genovese, ad avviare le prime ribellioni contro il dominio aragonese, che, attraverso la riorganizzazione feudale del territorio, puntava a ridimensionare il dinamismo economico dei loro possedimenti; a partire dagli anni Settanta del sec. XIV l’alleanza con gli Arborea, suggellata dal matrimonio di Eleonora con Brancaleone Doria, fece dello «stato» doriano, esteso tra l’Anglona e il retroterra logudorese di Sassari, uno dei centri della resistenza agli aragonesi e un ponte per i contatti con Genova ancora dopo la disfatta degli arboresi a Sanluri nel 1409.

Nei principali centri urbani della Sardegna nord-occidentale, tra il XII e la prima metà del sec. XV doveva essere dunque abbastanza diffuso il genovese, lingua comune anche a un’altra significativa componente allogena, i mercanti bonifacini (Soddu 2008): che le locali varietà sarde risentissero del suo influsso, pare evidente anche dall’esame linguistico di testi giuridici in logudorese, trascritti in un secondo momento da originali latini (gli statuti di Sassari nel 1316, quelli di Castelgenovese nel 1334-1336), e a noi pervenuti in una forma «depurata» in senso ulteriormente sardo per la loro stessa funzione di versioni redatte a uso degli abitanti del contado6. Con tutto ciò, come si anticipava, assai poco si può ipotizzare delle condizioni della sardità turritana prima dell’affermazione del sassarese, e di quale sardo, in particolare, sia intervenuto nel processo di formazione della nuova lingua. Quest’ultima si configura essenzialmente, in ogni caso, come il portato dell’altra grande componente demografica presente già in epoca medievale nel territorio, quella còrsa: oltre tutto, visto che assai difficilmente la presunta «toscanità» del sassarese potrebbe discendere dall’effimera e instabile presenza pisana7, solo il massiccio popolamento còrso può spiegare i caratteri precipui del sassarese, centro-italiani come centro-italiana è appunto la tipologia dei dialetti còrsi.

3. La presenza còrsa

Di una consistente immigrazione còrsa a Sassari, nel Turritano, a Castelsardo e nell’Anglona abbiamo prove concrete soprattutto a partire dall’inizio del sec. XIV, in stretto rapporto con la presenza ligure: la Corsica saldamente in mano a Genova dopo il disastro pisano alla Meloria (ma la colonizzazione ligure di Bonifacio risaliva già alla fine del sec. XII) sopperiva alla cronica esiguità demografica delle Riviere e dell’entroterra montano quando si trattava di sfruttare zone agricole che i feudatari genovesi faticavano a ripopolare con una (pur presente) immigrazione dalla Liguria; al tempo stesso, altri elementi còrsi impegnati nel commercio e nell’artigianato trovarono conveniente stabilirsi nella Sassari comunale, ormai a sua volta inserita nell’orbita genovese8. A differenza di quanto avvenne in Gallura, però, il flusso migratorio dalla Corsica al Turritano non solo andava a integrarsi nella complessa realtà demografica preesistente, caratterizzata da pluralità di contesti sociali e di esperienze linguistiche, ma proveniva dalla regione centro-occidentale dell’isola, gravitante sull’antico caposaldo ligure di Castel Lombardo prima, e sulla più recente fondazione di Ajaccio poi9. Esso ha origine quindi in un contesto territoriale e in una fase storica in cui l’influsso del genovese coloniale doveva essere particolarmente significativo10, ed è questa provenienza che aiuta a comprendere le peculiari caratteristiche del tipo dialettale importato a Sassari e nel suo territorio: l’influsso genovese in esso presente spiega i caratteri d’origine rivierasca che si integrano nel tessuto di una varietà còrsa destinata infine ad arricchirsi, nella nuova sede, di un significativo apporto di varietà sarde a loro volta presumibilmente già sottoposte a influssi liguri.

Questa ricostruzione è resa plausibile da alcune importanti acquisizioni degli ultimi anni, che hanno in certo qual modo rivoluzionato le coordinate storico-linguistiche sulle quali si è sempre basata, pur nell’estrema varietà di interpretazioni, la riflessione sul sassarese. Dal punto di vista strettamente linguistico, mi riferisco in particolare all’individuazione di una tipologia còrsa dotata di forti affinità col sassarese in alcuni suoi aspetti fondamentali: tale scoperta induce a rivedere l’idea corrente (Sanna 1975, 114) di una varietà elaboratasi in loco sulla spinta di influssi convergenti. Marie-José Dalbera Stefanaggi, isolando all’inizio degli anni Novanta il vocalismo «taravese» della fascia di transizione fra l’area meridionale della Corsica e quella maggiormente esposta all’influsso toscano, ne aveva immediatamente constatato (Dalbera Stefanaggi 1998) le affinità con quello sassarese, fino ad allora percepito come un sistema «misto» nel quale convivevano in maniera apparentemente caotica esiti sardi e centro-italiani:

Il est tentant de lire ce vocalisme sassarais à travers le prisme corse; l’archétype du système aujourd’hui observable à Sassari semble être le système taravais; les discordances relatives au traitement de Ē, Ō, sont de même nature que celles que nous avons relevées en Corse: un certain nombre de réalisations [e] et [o], la postérieure surtout, se voient, sous pression d’un autre système […], substituer des réalisations plus ouvertes [ɛ] et [ɔ]: le processus serait le même qu’au nord de l’aire taravaise; le sassarais manifesterait simplement un degré d’acomplissement moins avancé que le corse centro-septentrional (Dalbera Stefanaggi 2002, 88).

Il vocalismo sassarese, quindi, coincide fondamentalmente con quello di un’area della Corsica occidentale i cui limiti verso nord e verso sud appaiono oggi circoscritti dall’opposta pressione del tipo còrso settentrionale e di quello meridionale: se da un lato già dal golfo di Valinco e da alcuni villaggi del Sartenese talune isofone offrono significative concordanze col sassarese e col castellanese (Dalbera Stefanaggi 1999), dall’altro, le condizioni di queste ultime varietà coincidono per molti aspetti con quelle diffuse nella regione immediatamente intorno e a nord di Ajaccio (Dalbera Stefanaggi 2002, 88).

Sulla base di questa fondamentale constatazione diventa possibile effettuare, come vedremo, ulteriori riscontri di carattere strettamente linguistico tra l’area còrsa centro-occidentale e il sassarese. Quanto all’epoca e alle modalità del passaggio del dialetto còrso in Sardegna, all’osservazione secondo la quale «tale importazione si spiega bene nel periodo a cavallo tra Due e Trecento, quando Ajaccio e Sassari sono sotto il comune dominio genovese» (Barbato 2005-2006, 16) giova associare una lettura critica della documentazione onomastica e dei dati demografici di epoca tardo-medievale. Dai materiali disponibili, relativi soprattutto al periodo compreso tra la fine del Trecento e la prima metà del Cinquecento (Maxia 2008), emerge bene come in quella fase l’immigrazione dalla Corsica andasse modificando il quadro demografico della città e del contado: tuttavia essa riuscì a imporre il proprio idioma come lingua comune, verosimilmente, solo tra la fine del sec. XV e la prima metà del XVI, quando nel centro urbano l’elemento còrso era ormai nettamente maggioritario11. D’altronde, se il còrso era evidentemente parlato in area turritana già da prima, solo verso la metà del Cinquecento si hanno notizie dirette di una lingua nettamente diversa dal sardo praticata da una parte consistente della popolazione cittadina. Nel 1561 un religioso spagnolo, padre Francisco Antonio, affermava ad esempio che

la lengua ordinaria de Cerdeña es la sarda, come de Italia la italiana. En algunas villas empero usan la corça, aunque también entienden la sarda [...]. En esta ciudad de Saçer algunas personas prinçipales hablan mediocremente la española, pero lo común es sardo y corço, o italiano que le es vezino;

in particolare, «los mochachos ninguna lengua hablan sino es corça» (Turtas 1981, 60-61), circostanza che denuncia in maniera evidente la forte crescita demografica dell’elemento allogeno12. A quanto pare, tuttavia, alla consistenza dell’elemento demografico còrso non si accompagnava un particolare prestigio della sua lingua: raccogliendo infatti opinioni metalinguistiche diffuse, Baldassarre Pinyes, rettore del locale collegio gesuitico, ribadiva in quello stesso anno, da un lato, la diffusione della varietà alloglotta, ormai sentita come «lingua della città», ma anche, dall’altro, il senso di disagio di una parte della popolazione nei confronti di un idioma socialmente dequalificato:

los lectores, muy mejor sería que entendiessen y supiessen hablar italiano, porque es la lengua más entendida de lo niños por ser la propria lengua d.esta ciudad, la qual tiene peculiar lengua, muy conforme a la italiana, aunque los ciudadanos dessean desterrar esta lengua de la ciudad por ser apezadisa de Córsega y entrodusir la española (Turtas 1995, 116-117).

Come si vede insomma, la difficoltà di operare una distinzione netta tra còrso e italiano, dovuta alla ridotta distanza interlinguistica tra il dialetto isolano e il toscano letterario, generava non solo una valutazione negativa della lingua parlata a Sassari, percepita come variante diastraticamente marcata verso il basso, ma persino incertezze sulla sua effettiva natura. Tale situazione era destinata a durare a lungo: alcune fonti dei primi del Seicento parlano ancora francamente di una presenza in città, oltre che del sempre presente genovese, dell’«italiano»13.

Una varietà còrsa influenzata dal genovese, affermatasi dopo un lungo periodo di «confronto» e convergenza con una varietà sarda a sua volta precocemente aperta alla contaminazione e al contatto, pare dunque all’origine del sassarese moderno: la tentazione di attribuirne il successo all’ascesa incipiente di un ceto «borghese», secondo la suggestiva lettura di Sanna 1975 sarebbe forte, ma questa interpretazione collide con la cronologia, perché se un’attiva borghesia, eterogenea per origine etnica, si era già affermata a Sassari fin dal Trecento, la componente còrsa divenne maggioritaria, come si è visto, soltanto in seguito; al tempo stesso, la vecchia ipotesi di Tola di un dialetto «plebeo», oltre a implicare a sua volta una improbabile retrodatazione non tanto della presenza, quanto dell’affermazione del tipo còrso, può servire forse a spiegare, questo sì, le modalità originarie dell’impianto del còrso, lingua di immigrati, ma non i motivi della sua generalizzazione come varietà urbana.

Questo successo appare essenzialmente dovuto alla forte crescita demografica e alla progressiva crescita sociale della componente còrsa all’inizio dell’età moderna: quali che siano state in dettaglio le vicende politiche, sociali e culturali che coincisero con l’affermazione del suo dialetto, sta di fatto che esso si rivelò funzionale (forse proprio in virtù delle relative affinità tipologiche col toscano e delle sue assonanze genovesi) alle esigenze di una società urbana caratterizzata da un forte dinamismo e da una vocazione al confronto con centri economici e culturali esterni all’isola. Al tempo stesso, il profondo legame col retroterra sardo, mentre condizionava l’evoluzione del sassarese, incentivando i processi di convergenza col logudorese settentrionale14, contribuiva a integrare profondamente il dialetto urbano nel panorama insulare, facendone un elemento ulteriore della comunicazione plurale che caratterizza da sempre la Sardegna.

4. Caratteri del sassarese

Tra gli elementi che determinano il carattere còrso del sassarese dobbiamo anzitutto ricordare quelli condivisi, in opposizione al logudorese, anche dal gallurese: ad esempio, l’esito di -NJ- (campagna), l’assenza della metafonesi, la caduta delle consonanti finali latine, la significativa presenza dell’ossitonia (carà ‘calare’, cancarà ‘intirizzire’), il passaggio -AU- > -o- contro -a- del sardo (gall. pocu, sass. pogu, pur con molte eccezioni, Gartmann 1967, 67, dovute a contatto), la neutralizzazione della distinzione morfologica tra maschile e femminile al plurale (macchi ‘matti’ e ‘matte’), la derivazione dell’articolo determinativo da ILLU, le forme sintetiche del condizionale e del futuro indicativo (sass. eiu timaragghiu contro log. deo apo a tìmere), la mancata inversione della posizione delle forme verbali e degli aggettivi, compresi i possessivi (sass. li me fradeddi, i noltri neboddi / sardo frades tuos, nebodes nostros).

A questa generica «corsicità» si assommano più in dettaglio, però, quegli elementi che legano in maniera più evidente il sassarese alle parlate dell’area còrsa centro-occidentale. In primo luogo, come abbiamo già visto, il vocalismo di tipo «taravese» (diverso quindi da quello «còrso meridionale» del gallurese), che presuppone il passaggio ad [ɛ] ed [ɔ] di Ĭ ed Ŭ (es. troncu [´trɔnku], gora [´gɔra] ‘gola’, giòbanu [´ʤɔzanu], peru [´pɛru] ‘pelo’, nebi [´nɛβi] ‘neve’, senu [´sɛnu] ‘seno’ contro il sardo truncu, pilu, nivi ecc.), ma con instabilità del trattamento di Ē e Ō, col passaggio di un certo numero di realizzazioni [e] ed [o] alle corrispondenti vocali aperte (Dalbera Stefanaggi 2001, 160-161)15: ne deriva un sistema a 7 vocali toniche ridotto a 3 vocali atone come in gallurese (Contini 1987, 567-570), in cui si verifica però la confluenza in i e u delle corrispondenti vocali brevi e lunghe latine.

Di tipo còrso centro-occidentale (Dalbera Stefanaggi 1991, 380-383) si può considerare anche l’esito «italiano» di -LJ- (agliu ‘aglio’, figlioru ‘figlio’, piglià ‘prendere’, mégliu ‘meglio’), che contrasta sia col sardo (fidzólu, médzus) che col gallurese di impianto còrso meridionale (fiddolu, piddà, meddu); analogamente ai dialetti dell’area còrsa occidentale il sassarese si comporta anche per quanto riguarda la lenizione consonantica all’inizio di parola dopo vocale atona (Durand 2003, 155-163)): in tal modo, ad esempio, le parole cani e carru dopo l’articolo determinativo vengono pronunciate [lu ´gani], [lu ´garru], peddi ‘pelle’ passa a [la ´beddi], fenu a [lu ´venu], ciabi ‘chiave’ a [la ´ʤaβi] e così via (Guarnerio 1892-1898, 183); questo tratto estraneo al gallurese e al còrso meridionale, essendo presente in altre aree sarde non contigue è stato spesso annoverato tra le componenti d’origine autoctona del sassarese. Analogo discorso riguarda il passaggio sistematico di v- e -v- a [b], [β], per la corrispondenza delle forme sassaresi bentu, binu, bozi, baddi ‘valle’, ciaβi ‘chiave’, naβi ‘nave’ ecc. con le forme logudoresi (bentu, binu, boghe) contro il gallurese e còrso meridionale ventu, vinu, voci: tuttavia il còrso nord-occidentale (Durand 2003, 137) presenta a sua volta il betacismo; allo stesso modo, è presente in Corsica anche l’evoluzione di -RN- in -rr- (sass. forru; gall. furru; sass., gall. e sardo corru ‘corno’, sass. inferru, gall. infarru ‘inferno’, sass. turrà ‘tornare’, carri ‘carne’): sotto questo aspetto, è interessante notare che proprio la zona intorno ad Ajaccio, che costituì probabilmente il punto d’origine della varietà importata a Sassari, vede un tratto «meridionale» come questo accompagnarsi a esiti «settentrionali» come quelli ricordati in precedenza (Dalbera Stefanaggi 2002, 60, 62), confermando il carattere transizionale dei dialetti a vocalismo taravese. Quanto alla la lenizione sassarese (Loporcaro 2009³, 164), che comporta per le sorde originarie non solo sonorizzazione, ma anche geminazione (saruddu ‘saluto’, atséddu ‘aceto’, criaddura ‘creatura’, munédda ‘moneta’, amiggu ‘amico’, antiggu ‘antico’, aggabbà ‘terminare’ < sp. acabar, imbriaggu ‘ubriaco’, médiggu ‘medico’, abbi ‘ape’, cabbu ‘testa’, ecc., con estensione alle consonanti sonore etimologiche: triggu ‘grano’ < sp. trigo, suddòri ‘sudore’), essa riflette probabilmente un compromesso tra le opposte tendenze al rafforzamento delle consonanti intervocaliche e alla lenizione, che entrano in contatto nell’area còrsa centro-occidentale.

Nell’impianto essenzialmente còrso del sassarese emergono poi, come si accennava, alcuni tratti riferibili a un diversificato influsso ligure: da un lato, abbiamo visto che la presenza genovese nell’area turritana è probabilmente antica, anteriore alla definitiva affermazione del tipo còrso; al tempo stesso, però, quest’ultimo pervenne in Sardegna da un’area e in una fase caratterizzata da una discreta esposizione a quegli stessi modelli liguri che finirono per connotare durevolmente la parlata di Ajaccio (Toso 2008d). Fra i tratti liguri presenti in sassarese, occorre quindi distinguere quelli condivisi dal dialetto di Ajaccio da altri che potrebbero riflettere l’anteriore influsso genovese sull’antico dialetto sardo del Turritano. In particolare, il dialetto di Ajaccio e quello di Sassari coincidono perfettamente almeno per quanto riguarda il rotacismo di -l- (sass. ara ‘ala’, arénu ‘fiato’, curòmbu ‘colombo’, fòra ‘favola’, ischora ‘scuola’, mera ‘mela’, sori ‘sole’, candareri ‘candelieri'): sia nella città còrsa che in dialetto turritano il fenomeno si è esteso anche a l- iniziale che viene a trovarsi in posizione intervocalica (a ra runa ‘alla luna’). Per quanto non si possa escludere che il passaggio d'impronta ligure -l- > -r- sia stato introdotto indipendentemente in ajaccino e nel sardo anticamente parlato nell’area turritana, è degno di nota il fatto che di esso, nei documenti provenienti dalla città sarda, non si abbiano tracce anteriori alla prima metà del sec. XVI (Maxia 2005, 521), e che il rotacismo non sia condiviso dal logudorese settentrionale.

Un altro aspetto che accomuna le parlate di Sassari e di Ajaccio è poi la tendenza all’alterazione dei nessi caratterizzati dalla presenza di -l-, -r- e -s- preconsonantici (Dalbera Stefanaggi 1991, 129-132). Nella città còrsa il fenomeno vede (ad esempio nel dialetto più «tipico», quello dei pescatori del rione Calata) il passaggio di tali consonanti a un suono indebolito oscillante tra [r] e [l]: óřtu, cóřpu (reso graficamente u poltu, a balca, a Colsica, a molti, a felta, a colta, pilcà ecc.) contro il corso órtu, córpu, u portu, a barca, a Corsica, a morti, a festa, a costa, piscà ecc. (Dalbera Stefanaggi 1991, 129-132; (Durand 2003, 138; 141)); in sassarese e castellanese (ma anche in diverse varietà del logudorese settentrionale) l’alterazione è ulteriormente progredita, diversificandosi: -LC-, -RC-, -SC- passano a fricativa velare sorda (balconi [ba´xxɔni], barca [´baxxa], porcu [´pɔxxu], pasca [´paxxa], iscola [i´xxɔra], ecc.), -LG-, -RG-, -SG- alla sonora (alga [´aɣɣa], largu [´laɣɣu], ecc.), -L-, -R- e -S- davanti a -T- passano a laterale fricativa alveolare sorda (althu [´aɬtu], porthu [´pɔɬtu], postha [´pɔɬta], masthru [´maɬtru]), e a sonora davanti a -d- (caldu [´kaɮu], lardu [´laɮu]); infine, -L-, -R-, -S- davanti a -B-, -V-, -P-, -F-, -M- passano a [j], come in [´ajburu] ‘albero’, [´fojvitsa] ‘forbice’, [tsaj´beddu] ‘cervello’, [´nejvju] ‘nervo’, [´sajvja] ‘salvia’, [´sujffaru] ‘zolfo’, [´kɔjpu] ‘corpo’, [´pajma] ‘palma’, [j´pina] ‘spina’ ecc. Malgrado la divergenza degli esiti, è forte l’impressione di trovarsi di fronte allo stesso fenomeno: per esso sono stati istituiti non a caso, sia nelle sue manifestazioni in ajaccino che in sassarese,  raffronti con varie aree interessate all’indebolimento di [r] e [s] preconsonantici, soprattutto della Toscana (Pisa, Livorno)16: più di recente è stato però osservato (Toso 2008d) come anche in Liguria vi siano aree (in larga misura coincidenti con le zone d’origine dei Liguri passati nella Corsica occidentale) in cui [r], [s] + cons. subiscono alterazioni e indebolimenti. In ogni caso, anche a voler prescindere da una remota origine continentale, l’alterazione dei nessi -L-, -R- e -S- + cons. pare comunque da ascrivere al novero delle concordanze tra il sassarese e l’area còrsa occidentale. Gli ultimi due fenomeni commentati, la rotacizzazione di -l- in particolare, sembrano insomma rimandare alle stesse modalità di contatto linguistico còrso-ligure che contribuirono a determinare la personalità attuale del dialetto di Ajaccio; la più accentuata differenziazione del sassarese rispetto alla matrice originaria sarà stata accelerata dai processi di convergenza con le varietà sarde.

Dalla particolare modalità di sardo che fu parlato nel Turritano il sassarese mutuò probabilmente, come si è detto, qualche altro tratto di impronta ligure: esiti che non solo mancano in Corsica, ma che appaiono condivisi dai dialetti logudoresi settentrionali, la cui attuale dislocazione nell’hinterland sassarese potrebbe riflettere come si è detto (cfr. nota 14) il processo di emarginazione della parlata originaria, indotto dalla progressiva affermazione del còrso in ambito urbano. Un tratto riconducibile all’antico influsso del genovese sul sardo turritano potrebbe essere in particolare il passaggio di CE-, CI-, -CJ- a [ts] come in tséna ‘cena’, tsentu ‘cento’, tsinku ‘cinque’, tsèru ‘cielo’, tsaibéddu ‘cervello’, brattsu ‘braccio’, rittsibì ‘ricevere’, lattsu ‘laccio’, siattsu ‘setaccio’, nittsola ‘nocciola’, prìntsipi ‘principe’ ecc. (Guarnerio 1892-1898, 168-169), contro il logudorese chentu, chimbe, chelu e il còrso e gallurese (tranne la varietà aggese, che sta col sassarese) centu, cincu, celu: questa fase corrisponde alle condizioni del genovese fino al sec. XV, ed è ancora ben documentata nelle varietà arcaiche dell’entroterra ligure montano e della Riviera di Ponente. Di impronta ligure, e ancora una volta assente in ajaccino, sembra essere l’assimilazione di -L- e -R- nei nessi con -ʧ-, -ts-, -s- (cattsina ‘calce’, cattsétti ‘calze’, cattsòni ‘calzoni’, dòttsi ‘dolce’, attsà ‘alzare’, buttsu ‘polso’, fattsu ‘falso’, lèttsu ‘lercio’, fòttsa ‘forza’), che si manifestava già in genovese antico (e cfr. i moderni [ka:′siɳa], [ka:′seta], [′du:se], [a:′sa:], [′pu:su], [′fa:su]).

Più complesso è invece il caso della palatalizzazione dei nessi cons. + -L-: mentre il gallurese e il còrso presentano la stessa situazione del toscano (in posizione iniziale: chjaru, ghjanda, biancu, fiamma, pianu), il sassarese (e il logudorese settentrionale, ma non il castellanese) vanno col genovese ma solo per CL- e GL- (ciabi ‘chiave’, ciaru ‘chiaro’, ciammà ‘chiamare’, ciodu ‘chiodo’, gianda ‘ghianda’, giumeddu ‘gomitolo’, gesgia ‘chiesa’) fermandosi per il resto allo stesso stadio del gallurese. Probabilmente la palatalizzazione penetrò ovunque, precocemente in una fase (analoga a quella «toscana») che è comunque il presupposto degli esiti liguri attuali ([ʧa′ma:], [′ʤaɳda], [′ʤaɳku], [′ʃama], [ʧaɳ]), mentre lo sviluppo successivo di -CL- e GL- in area turritana e logudorese settentrionale si inserisce nel quadro generale dell’evoluzione di chj e ghj di qualsiasi origine e posizione in [ʧ] e [ʤ], alla quale non sembra estraneo a sua volta il modello genovese: le varie forme sassaresi maccia ‘macchia’, aréccia ‘orecchia’, vecciu ‘vecchio’, occiu ‘occhio’, buggiu ‘buio’, aggiuddu ‘aiuto’, ginócciu ‘ginocchio’, acciappà ‘prendere’, viggià ‘vegliare’, ginnaggiu ‘gennaio’ ecc., mentre contrastano col gallurese (e còrso) vecchju, occhju, bugghju, agghjutu, ghjnnagghju e col tipo sardo più genuino, presentano infatti discrete assonanze con l’area ligure.

D’altronde, comunque li si voglia interpretare, a differenza di quelli comuni al dialetto ajaccino questi antichi tratti di impronta «ligure» furono veicolati da un'interferenza sarda sul sassarese, che fu certamente massiccia fin dall’impianto della varietà còrsa, e destinata a continuare nelle perduranti condizioni di pluriglossia che caratterizzarono storicamente l’area turritana. È significativo sotto questo punto di vista che fra i principali tratti sardi presenti in sassarese, la maggior parte sia condivisa anche dal gallurese, come nel caso del passaggio di -RS- a -ss-, - della terminazione del gerundio presente in -endi (sardo -ende) contro il còrso -endu, -andu, della resa dell’aspetto durativo del verbo con essere + gerundio (gall. eri andendi ‘andavi’, sass. soggu andendi ‘vado’, soggu vinendi ‘vengo’, soggu magnendi ‘mangio’), dell’inversione dell’ausiliare nelle interrogative dirette (gall. vinutu sei?, sass. magnadu ai?, vistha l’hai a mamma?, Sole 1999, 32). Di influsso sardo, ma assente invece in gallurese, potrebbe essere inoltre l’introduzione di una i- prostetica davanti ai vecchi gruppi st-, str-, sc-, scr- ecc. (isthranu [i´xanu] ‘strano’, iscola [i´xxɔra] ‘scuola’, iscara ‘scala’ [i´xxara], ecc.): non è però da escludere che l’adozione della vocale d’appoggio nasca dalla difficoltà di pronuncia, in posizione iniziale, dei loro succedanei.

Per quanto riguarda il lessico, come in gallurese, buona parte della terminologia di base e molti concetti di uso corrente rimandano di preferenza, per il tramite còrso, all’area italiana (Wagner 1997, 344); tuttavia, la componente sarda nel vocabolario sassarese si rivela percentualmente maggiore che non nel gallurese stesso, e per quanto alcune affermazioni in proposito (Sanna 1975, 97-104) possano suonare un po’ eccessive, è soprattutto in ambito lessicale che si può verificare il peso notevole del contatto col logudorese, che deve avere agito di volta in volta nel suo ruolo di componente nel processo di formazione della parlata sassarese o come lingua di contatto, introducendovi una quantità di voci appartenenti alla più genuina tradizione isolana (inogghi ‘qui’, inghibi ‘là’, giaiu ‘nonno’ ecc.), non meno di termini a sua volta assunti dal catalano (aggabbà ‘terminare’, caglià ‘tacere’, carrera ‘via’, gana ‘voglia’, grogu ‘giallo’, matessi ‘stesso’, tambè ‘anche’, ecc.) o dallo spagnolo (appusentu ‘camera da letto’, feu ‘brutto’, triggu ‘grano’, mesa ‘tavola’ ecc.).  

Nella componente genovese del lessico (Toso 2017b), a sua volta significativa, diventa interessante distinguere, naturalmente, tra le voci che il sassarese ha in comune col còrso (arrembassi ‘appoggiarsi’, attsùa ‘acciuga’, giasthemma ‘bestemmia’, ishpiccitti ‘occhiali’, ecc.), alcune delle quali hanno avuto peraltro (come nel caso di ziminu), un’autonoma evoluzione di significato17, e quelle entrate verosimilmente per via autonoma e diretta (appròbbu ‘vicino’, banzigà ‘dondolare’, berrina ‘trapano’, garicciu ‘gioco delle palline’, siattsu ‘setaccio’, ecc.): per molte di esse si pone anche il problema del periodo di assunzione, considerando che se da un lato alcune mostrano una diffusione, probabilmente assai antica, verso l’interno dell’isola (ad es. ciappa ‘natica’, dgéa ‘bietola’, brùgura ‘pustola’, cfr. log. sett. bùgula; sèllaru ‘sedano’, anche gallurese), altre denunciano anche nella veste fonetica una data d’importazione anche molto recente, come nel caso di fainè ‘farinata di ceci’18.

5. La variazione diatopica

Nei paragrafi precedenti abbiamo spesso insistito sul carattere «urbano» del sassarese, e rimane innegabile che questa parlata si identifica anzitutto con la città dalla quale prende il nome e con la sua popolazione: di essa rifletterebbe anzi, come vedremo, una serie di vere e proprie attitudini antropologiche codificate nei durevoli miti della sassareseria. Tuttavia, il territorio in cui si parlano il sassarese e alcuni dialetti ad esso intimamente collegati è alquanto più esteso, circostanza che ha posto a sua volta qualche interrogativo in merito al luogo e alle modalità di formazione di questa varietà: per (Sanna 1975, 16) ad esempio, data la sua ipotesi di una parlata mista nata dalla piccola «rivoluzione economica» che avrebbe messo in contatto commercianti continentali e «produttori» sardi, la gestazione del sassarese non potè aver luogo che a Porto Torres, antica capitale giudicale e precoce ambito di insediamento di imprenditori pisani e genovesi. Tale opinione è sostanzialmente accolta da Leonardo Sole, che si basa peraltro sulla diffusione del sassarese in un centro agricolo come Sorso per ribadire la dimensione «rurale» e zappadorina della parlata, confermata dal radicamento di importanti tradizioni agricole nello stesso capoluogo, che ebbe sempre una struttura economica intimamente legata al suo contado (Sole 1999, 61-63). L’analisi della variazione diatopica tra Sassari e Sorso (Gartmann 1967) non consente peraltro di ricavare informazioni significative, perché il relativo conservatorismo del dialetto della seconda sembra riflettere essenzialmente le consuete dinamiche del rapporto città-campagna, e (anche per la maggiore oscillazione delle toniche, tra  i / ɛ, ɔ / u) una più decisa influenza sarda di contatto, che si riscontra anche nel lessico (Sole 1999, 58); analogo discorso vale per le poche divergenze rispetto alla varietà urbana del dialetto di Porto Torres, dove è caso mai il lessico, condizionato dalle tradizionali attività portuali e pescherecce, a risentire a quanto pare di un maggiore influsso ligure.

Più originale è invece il caso di Stintino, borgo costiero per il quale, curiosamente, fu sostenuta (Sanna 1975, 106) una inesistente tenuta di caratteristiche logudoresi. In realtà Stintino, fondata nel 1885 dopo il trasferimento coatto della popolazione dell’Asinara, isola destinata da quell’anno a diventare colonia penale (Diana 2008-2010), riflette ancor oggi, nelle sue tradizioni marinare e nei cognomi degli abitanti, il carattere composito del primitivo insediamento insulare: almeno dal XVIII sec. all’Asinara convivevano infatti (non sempre pacificamente) una comunità di diretta origine còrsa, e un’altra, insediata a Cala d’Oliva, formata da pescatori e tonnarotti liguri di ascendenza camogliese e alassina. Con la fondazione appunto di Stintino (divenuta comune autonomo da Sassari solo a partire dal 1988) si verificò la fusione tra le due componenti, che solo allora, probabilmente, adottarono in via definitiva il sassarese, veicolato anche dal precoce insediamento turistico-residenziale di alcune importanti famiglie cittadine. Il ligure dovette sopravvivere per un certo periodo come linguaggio tecnico dell’attività cantieristica19, e una recente indagine lessicale (Calvisi 2018) ha consentito effettivamente di riscontrare nel lessico della pesca e della marineria una significativa componente ligure.

Anche l’attività della locale tonnara, di proprietà genovese e affidata alla direzione di rais carlofortini, comportò l’adozione del lessico ligure legato a questa attività: Rubino 1994, 247-249, fornisce un breve glossario di questa terminologia tecnica, sul quale è possibile verificare l’ampia corrispondenza col lessico specialistico tabarchino, che è poi, in parte, comune a quello di altri punti del Mediterraneo interessati da questo tipo di pesca: si vedano ad esempio voci come assummare ‘salpare un cavo’, barbariccio ‘una delle barche della tonnara’, baibasallu ‘punta della pinna natatoria del tonno’, carafatà ‘rete laterale della camera della morte’, cianche ‘ripiani per la lavorazione del pescato’, gaggini ‘manodopera non specializzata’, mappioli ‘corde per ritirare la rete della tonnara’, ecc.

La distinzione tra la parlata di Sassari e quelle di Sorso, Porto Torres e Stintino sembra essere insomma di carattere prevalentemente lessicale, o riflettere il maggiore dinamismo della parlata cittadina: oggi i dialetti di queste tre località extraurbane conservano ad esempio la pronuncia cacuminale di -dd-, che in città era stata rilevata, ma in forte regresso, ancora da Gartmann 1967, 86.

Il sassarese e i dialetti intimamente collegati di Sorso, Porto Torres e Stintino

Diverso è  invece il caso di quelle varietà che si considerano di «transizione» fra sassarese e  gallurese, sulle quali il dialetto urbano ha continuato a esercitare, in un processo storico di lunga durata, una forte attrazione.

La genesi del dialetto castellanese di Castelsardo fu probabilmente affine, ma non identica, a quella del sassarese: centro urbano importante, come abbiamo già visto, e di fondazione genovese, fu una delle porte d’accesso dell’immigrazione còrsa in Sardegna, mantenendo a lungo le caratteristiche sociolinguistiche caratteristiche di questo tipo di insediamenti. La diversa connotazione del dialetto dei quartieri di sòbbra, intorno alla cittadella, dovette corrispondere in origine alla strutturazione etnico-sociale della popolazione: successivamente, il processo di sostituzione del genovese con la varietà còrsa non si risolse tuttavia in una omogeinizzazione linguistica totale, perché al tipo còrso «risalito» nella zona alta dell’abitato (in origine più vicino al gallurese) andò a mano a mano sostituendosi, nei quartieri di sòttu, una varietà maggiormente aperta all’influsso del sassarese. Di conseguenza si riconoscono oggi (anche se con crescente difficoltà) un tipo castellanese dotato di caratteristiche peculiari (in particolare dal mantenimento della sibilante nei nessi consonantici: Maxia 2008b, 28-29), e un altro ormai decisamente orientato verso il modello urbano.

La transizione tra sassarese e gallurese si coglie bene nel dialetto di Sedini, diffuso anche a Tergu, nel retroterra di Castelsardo fino alla borgata periferica di Lu Bagnu e a La Muddizza e La Ciaccia frazioni di Valledoria: la differenza tra le due varietà di transizione sembra data essenzialmente dal fatto che «il castellanese per il vocalismo e il sedinese per il consonantismo si mostrano solidali col sassarese» (Maxia 2005, 526). La diretta influenza del sassarese si coglie anche in qualche dialetto sardo di contatto, e in primo luogo in quello di Sennori, a poca distanza da Sorso (Jäggli 1959), ad esempio per le desinenze del congiuntivo presente, ma soprattutto per la neutralizzazione al plurale della differenza di genere (sa vídza ‘la figlia’, su vídzu ‘il figlio’, ma soy fídzos ‘le figlie’ e ‘i figli’), per imitazione appunto del sassarese, dove l’esito convergente delle vocali atone -i ed -e genera una forma unica per il plurale (la rosa / li rosi: Wagner 1997, 346).20.

6. Gli usi scritti

Una ricorrente tradizionale locale, recepita anche nel resto della Sardegna, attribuisce al «carattere tipico» sassarese una innata propensione per l’ironia e l’autoironia, per lo sberleffo e per il sarcasmo21: ciò troverebbe espressione nello «spirito» della lingua locale, percepita come dialetto essenzialmente plebeo, denso di umori popolareschi e ideale per la rappresentazione di caratteri comici e parodie. A questo tipo di generalizzazioni occorre naturalmente riconoscere un valore relativo, e riflettere piuttosto sulle loro motivazioni: è possibile ad esempio che il discreto «prestigio» del logudorese abbia finito per attribuire al sassarese questo rango di varietà «bassa»; al tempo stesso però, non bisogna dimenticare che il sassarese ha sempre costituito un oggetto di identificazione collettiva particolarmente forte ed efficace, simbolo di «identità» cittadina ed elemento di caratterizzazione rispetto alla realtà extraurbana.

Quella sassarese è a sua volta, fin dalle origini, una letteratura plurilingue: dopo la primitiva testimonianza del condaghe di San Pietro in Silki in logudorese (Delogu 1997), ai testi di evidente importazione continentale22, si succedono quelli in sardo (la città alloglotta vanta il primato di aver prodotto le prime opere poetiche in tale lingua)23, in latino (Fara 1992), poi in castigliano (Galiñanes Gallén/Depalmas 2017) e ancora in italiano. In un tale contesto, il sassarese comincia a essere coltivato piuttosto tardi, arrivando alla dignità di stampa solo per riflesso della tradizione sarda di utilizzo della lingua vernacola nell’educazione religiosa (Virdis 1992, 278-292). Accanto a un Brevi catechismu promosso dall’arcivescovo Alessandro Varesini (1857) si collocherà anche una produzione erudita con finalità di documentazione linguistica: in stretto rapporto col dibattito sulla classificazione delle parlate sarde, dalla collaborazione tra lo Spano e il principe Bonaparte scaturirà la serie delle traduzioni bibliche (Lupinu 2007), e delle raccolte di testi di tradizione orale, con le prime sistemazioni antologiche (Spano 1873) in cui trovano ospitalità gli archetipi non particolarmente originali della lirica locale: Proto Farris (1760-1782) e Sebastiano Branca (1738-1812), che scrisse anche in sardo e in italiano, risultano essere i primi autori di versi originali in sassarese, e non è privo di significato che nel corso dell’Ottocento il dialetto turritano compaia ancora in testi plurilingui come la satira Sa briga de sos santos dell’osilese Antonio D. Migheli (1843-1912), prima di conoscere la sua definitiva consacrazione letteraria.

Essa si colloca sullo sfondo di un’intensa stagione intellettuale che nella Sassari fin de siècle ebbe per protagonista, tra gli altri, lo scrittore Enrico Costa (1841-1909), inesausto promotore di iniziative culturali in cui si trovò spesso coinvolto il più giovane Pompeo Calvia (1857-1919): intellettuale borghese a contatto coi centri culturali della penisola, attento all’esperienza dialettale dei romaneschi e del napoletano Salvatore Di Giacomo (Brevini 1999, II, 2881), Calvia superò le iniziali esperienze in logudorese proponendosi come cantore di una Sassari popolare e piccolo-borghese: Calvia curò nel 1912 la raccolta completa dei suoi versi, Sassari mannu dove emerge tutta l’originalità, rispetto al contesto sardo, di un autore visceralmente urbano, in grado di descrivere «la crisi di crescita di una città che usciva da una economia e da una civiltà» (Tanda 1984, 37) inserendosi prepotentemente nell’incombente modernità. Accanto a una produzione minore a carattere popolareggiante, Calvia è quindi l’iniziatore di una tradizione poetica che ha conosciuto significativi sviluppi nei decenni successivi, con l’opera di Salvator Ruju (1878-1966: «l’ultimo ad avere interpretato correttamente […] l’identità vera di Sassari e dei suoi abitanti», Sole 1999, 108), che pubblicò nel secondo dopoguerra le sue opere principali all’insegna della rievocazione lirica degli ambienti tradizionali. Particolarmente atto a rappresentare gli «umori tipici» della sassareseria, anche il teatro dialettale ha conosciuto nel secolo scorso un notevole sviluppo grazie all’opera, tra gli altri, di Battista Ardau Cannas (1893-1984), che con Farendi in Turritana (1917) può essere considerato l’iniziatore della commedia sassarese, antesignano di una tradizione tuttora assai vitale. Meno sviluppata appare invece la prosa narrativa, che per la varietà urbana può nondimeno contare sulle prove di Palmiro De Giovanni e sui racconti per l’infanzia di A. Salis, mentre in dialetto di Castelsardo si è durevolmente affermata l’interessante opera di Giuseppe Tirotto.

Gli usi scritti del sassarese possono ormai contare su una discreta opera di codificazione: essa riguarda in primo luogo il vocabolario, che dopo l’inserimento di materiali dell’area turritana nelle principali raccolte lessicali sarde, ha visto la realizzazione di importanti dizionari (Muzzo 1989Lanza 1989; Bazzoni 2006), cui si aggiunge una ricca raccolta fraseologica (Bazzoni 2003). Le complesse vicende della resa grafica del sassarese (Sole 1999, 121-129), appaiono sostanzialmente risolte in sintesi grammaticali (Bazzoni 1999; Coraduzza 2004) , che accolgono e codificano scelte ampiamente condivise ed entrate di fatto nella tradizione.

7. Aspetti sociolinguistici in sincronia

La vitalità della parlata si manifesta anche attraverso una discreta «presenza» in occasione di feste tradizionali e manifestazioni popolari, per le quali l’uso parlato, cantato, recitato e scritto del sassarese è indice di partecipazione emotiva e di larga condivisione: così è, ad esempio, in occasione della Faradda di ri candareri del 14 agosto, che vede l’attiva partecipazione delle antiche corporazioni professionali, le quali costituiscono altrettanti «luoghi» (accanto a lu patiu ‘il cortile comune’ e a lu vindioru ‘il bar di quartiere’) depositari delle genuine tradizioni linguistiche della città. Le inchieste condotte a partire dagli anni Novanta (Sole 1999, 101-105), rivelano nondimeno un costante calo dell’uso soprattutto nel centro cittadino, dove, secondo Oppo 2006, gli intervistati dichiarano una competenza attiva del sassarese per il 35 %, che sale al 55 % includendo chi ha una competenza passiva; questi dati crescono rispettivamente al 40 e a più dell’80 % per l’intera area dialettale, con una maggiore diffusione del sassarese tra le persone di sesso maschile, dotate di un livello di istruzione inferiore e a basso reddito: ciò propone evidentemente percentuali affini a quelle di altre aree urbane (in Italia e altrove) sullo sfondo della crisi degli usi linguistici tradizionali che riguarda gran parte della Sardegna. L’unico punto discordante rispetto a una problematica ampiamente scontata pare quello relativo alle fasce di età, che vedrebbe un discreto «recupero» del sassarese tra le generazioni più giovani di intervistati: infatti,

nell’area del sassarese […] coloro che hanno meno di trentacinque anni dichiarano un uso del sassarese più frequente che negli adulti e negli anziani. Tra l’altro, disaggregando i dati, risulta che sono proprio i giovanissimi a dichiarare di parlare più spesso la lingua locale: all’interno della classe di età che comprende i ragazzi tra i 15 e i 24 anni un individuo su due si dichiara competente attivo del sassarese (Oppo 2006, 65).

Questo dato riflette probabilmente una tendenza all’utilizzo del dialetto in contesti gergali e para-gergali, dove esso entra in gioco nella elaborazione di un linguaggio giovanile dalle accentuate caratteristiche di slang urbano, assai diverso dal sassarese in ciabi delle generazioni più anziane: in tal modo si verifica un non del tutto scontato «travaso» fra senso di appartenenza alla realtà locale e affermazione di un’identità generazionale, che, se trova qualche riscontro nel gergo giovanile cagliaritano (Gargiulo 2002), si manifesta come segnale di vitalità della parlata anche in reazione alla presenza del sardo.

Infatti, pur continuando a essere percepito come varietà «rurale» e per certi aspetti estranea al contesto locale, il logudorese è assai radicato nel repertorio del centro urbano e dell’area linguistica più in generale: sempre secondo lo studio di A. Oppo, la competenza attiva del sardo nell’ambito tradizionale di diffusione del sassarese supera il 27 %, e quella passiva il 40 %. Tale circostanza riflette una presenza  antica e in certo qual modo consustanziale ai processi stessi di elaborazione del sassarese, ma è soprattutto frutto di una costante reintroduzione: d’altronde il sardo è diffuso non solo a Sassari e Porto Torres (centri urbani destinati come tali a esercitare una forte attrattiva sul retroterra sardofono) ma anche negli abitati minori e negli insediamenti sparsi del contado della Nurra, in virtù di una dinamica di ripopolamenti rurali attraverso i quali li Sardi di ri biddi hanno continuato a integrarsi nell’area linguistica sassarese, dando vita a contesti plurilingui le cui caratteristiche meriterebbero un’indagine approfondita.

È possibile allora che la mancata integrazione linguistica, pur non precludendo l’intercomprensione tra i parlanti di varietà diverse (anche in ragione della componente lessicale sarda massicciamente presente nel sassarese), abbia introdotto più ancora che in passato un senso di distacco tra i sassaresofoni, depositari di una «identità» locale fortemente connotata, e i nuovi venuti, portatori di una coscienza linguistica in relativa crescita di prestigio: tutto ciò aiuta forse a capire meglio, da un lato il «recupero» del sassarese presso le giovani generazioni, dall’altro l’avvio di iniziative istituzionali a favore della varietà locale, peraltro esclusa in quanto tale, assieme al tabarchino e al gallurese, dai benefici previsti dalla L.N. 482/1999 per il sardo. D’altro canto, il plurilinguismo dell’area sassarese e del centro cittadino in particolare è venuto arricchendosi negli ultimi anni di una variegata componente straniera (il 2 % della popolazione urbana alla fine del 2010, con la significativa presenza, in particolare, di comunità romene, cinesi e senegalesi), che stanziandosi soprattutto nei quartieri della città vecchia, cuore della sassareseria tradizionale (Sole 1999, 105-109), è entrata in contatto, oltre che con l'italiano, con una dialettalità (sassarese e sarda) ancora vitale, proponendo situazioni inedite di commistione linguistica e di riformulazione identitaria, che confermano il ruolo di Sassari come uno dei principali «luoghi» del confronto e dell’innovazione, non soltanto linguistica, nel contesto isolano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Tale fu ad esempio l’opinione (almeno in un primo momento) del popolare scrittore sassarese Enrico Costa, destinata a diffondersi a livello popolare: «ai Pisani dobbiamo anche il nostro dialetto, che per la maggior parte è quasi lo stesso che vi si parla oggi – una specie di toscano del secolo XIII – corrotto da un po’ di corso e da molto spagnuolo» (Costa 1992, I,50).
Questa idea fu sostenuta dallo stesso M. L. Wagner, che rifacendosi a ricostruzioni storiche inaffidabili descrisse il sassarese come «un dialetto plebeo che […] si stava formando a poco a poco a partire dal sec. XVI, dopo che varie pestilenze mortalissime avevano decimato la popolazione della città; dei superstiti la massima parte era di origine pisana e còrsa, e non mancavano neanche i genovesi. Così nacque questo dialetto ibrido che oggi si parla a Sassari, a Porto Torres ed a Sorso, la cui base è un toscano corrotto con qualche traccia genovese […] e con non pochi vocaboli sardi» (Wagner 1997, 345): a più riprese si è poi ironizzato sul  carattere «selettivo» di un contagio che avrebbe infierito sulla popolazione d’origine sarda risparmiando tutte le altre componenti!
Una lettura «sociologica» delle origini del sassarese era stata tentata già da P. Tola per il quale la parlata «derivò primamente dal sardo volgare frammisto al dialetto còrso e al pisano […] che cominciò ad essere adoperato […] nei rozzi parlari del volgo […]; che poco per volta s’incarnò nel popolo per mezzo dei traffichi e dei commerci, sicché divenne il linguaggio della moltitudine negli usi più frequenti della vita» (Tola 1850, 516); successivamente A. Sanna individuò invece nel sassarese la lingua di una «classe media urbana, sorta e affermatasi sotto la spinta delle nuove idee e della nuova economia» (Sanna 1975, 28).
Il distacco psicologico tra gli abitanti di Sassari e quelli del contado appartiene ai luoghi comuni della discussione sulla parlata. Per lo Spano ad esempio, si associava alle forme attraverso le quali anche i Galluresi esprimono la loro alterità rispetto all’area sardofona: «non solamente i Sassaresi, ma tutta la Gallura e Sorso appellano i logudoresi Li Sardi e la loro lingua sarda» (Spano 1840, XIII); a sua volta il Guarnerio rilevava che «i Sassaresi dicono Sardi gli abitanti de’ villaggi, i quali in effetto parlano il logudorese, che è quanto dire il sardo per eccellenza» (Guarnerio 1892-1898, 126); secondo Maxia, a Sassari «i sardofoni sono definiti comunemente li di li biddi ‘quelli dei paesi’ con particolare riferimento agli abitanti dei centri minori che cingono a Sud la città secondo un semicerchio che congiunge Olmedo da est con Sennori a ovest. I sardofoni residenti a Sassari e nelle sue borgate sono definiti accudiddi letteralmente ‘sopraggiunti’ rispetto ai Sassaresi di parlata còrsa che […] si autodefiniscono sassaresi in ciabi letteralmente ‘sassaresi in chiave’ cioè ‘autentici’» (Maxia 2005, 527-528). Tale circostanza ha generato anche interpretazioni sociologiche non prive di interesse, ma vincolate a tentativi di lettura non completamente neutrali dei fatti linguistici, per l’insistenza sulla contrapposizione tra un dialetto «basso» (il sassarese appunto) e gli usi linguistici dell’aristocrazia: «ancora oggi gran parte delle famiglie nobili sassaresi conservano, almeno parzialmente, le loro proprietà avite nel Logudoro, mantengono gli antichi legami, le clientele, e accanto al sassarese, parlano logudorese, in piena consapevolezza della loro origine. D’altra parte, Sassari repubblicana parla spesso della sua nobiltà con tono di sufficienza: nobili di ri biddi, nobili dei paesi, non della città» (Sanna 1975, 80).
La durevole presenza dei Doria si manifestò a livello politico ancora «a partire dalla seconda metà del Duecento fino all’arrivo nell’isola dei Catalani», quando i membri della famiglia «tentarono di costituire non un semplice insieme di feudi e possedimenti territoriali, ma un vero e proprio stato coloniale, frutto di imprese di conquista e di alleanze politiche, vivificato da un’economia di mercato. Tutto ciò per contrastare la sempre maggiore concorrenza che esercitava la città di Sassari, Comune pazionato a Genova, e per rivitalizzare la stagnante economia locale» (Gallinari 1997, 76).
Sui genovesismi presenti nella lingua degli statuti bastino qui le osservazioni di Wagner, che segnalava forme di inequivocabile provenienza ligure come asteris ‘tranne, eccetto’, lantora ‘allora’ o rumenta ‘spazzatura’ (Wagner 1997, 246); anche la maggior parte dei generici «italianismi» riscontrati in quei testi (Wagner 1997, 242) non collide con la scripta genovese trecentesca. Non pare inoltre da escludere che, oltre all’originale latino, degli statuti di Sassari circolassero versioni nei volgari continentali. Secondo un documento ricordato da Tola, nel 1565 «i membri dello Stamento Militare della Sardegna – costituito da elementi di nobiltà spagnola – chiedevano alla graziosa Maestà di Filippo II che gli statuti comunali delle città sarde, scritti “en llengua pisana o italiana” come quelli di Iglesias e di Bosa, o “en llengua genovesa o italiana” come quelli di Sassari fossero tradotti in catalano, apparendo insopportabile che “lleys del Regne stiguen en llengua strana”» (Sanna 1975, 49).
Allo stesso tempo la prevalente caratterizzazione in senso «italiano» del sassarese non potè essere certo veicolata dalla presenza genovese: in Liguria l’italiano comincia ad affermarsi, non senza resistenze e conflitti, nell’uso scritto, solo a partire dalla prima metà del sec. XVI. L’ipotesi di Genova come centro di diffusione di un’«italianizzazione» secondaria, sostenuta per la Corsica da Dalbera Stefanaggi 2004, appare francamente insostenibile (Toso 2005b; Toso 2008c; Toso 2008d).
La natura della simbiosi còrso-ligure si constata bene in un centro come Castelgenovese, dove nel 1321 solo il 20% della popolazione risultava di origine indigena (Livi 1984) a fronte di una maggioranza continentale, ma soprattutto còrsa. Del resto la convivenza còrso-ligure si manifestava già nei luoghi d’origine dei coloni (Pomponi 1992)
Il ripopolamento di Ajaccio comportò il trasferimento in Corsica di numerosi coloni appartenenti agli strati più bassi della popolazione della Riviera di Ponente, i cosiddetti Figoni che nello stesso periodo stavano emigrando massicciamente anche in Provenza, dando vita ad alcune compatte comunità (Toso 2014b); la presenza del cognome o soprannome Figone nella Sassari del sec. XVI (Maxia 2008, 346) e la sua successiva diffusione, fanno ritenere che al passaggio nella Sardegna settentrionale di elementi còrsi si sia accompagnato anche quello di una parte di questi oriundi liguri.
La realtà sociolinguistica che si veniva a creare nelle cittadelle genovesi del litorale còrso fu quella che rimase poi a lungo in vigore nella stessa Bonifacio (Toso 2008e), con la presenza di un nucleo urbano di dialetto ligure e una varietà còrsa del contado da esso influenzata, mentre la varietà cittadina andava a sua volta aprendosi all’influsso indigeno col ridimensionarsi delle restrizioni (di carattere psicologico e culturale non meno che giuridico) che precludevano ai còrsi l’insediamento nella città murata: ciò non spiega solo la conservazione del ligure bonifacino fino a oggi, ma anche la lunga durata di varietà liguri «coloniali» a Calvi e ad Ajaccio, almeno a giudicare dal loro lascito nelle varietà còrse attualmente parlatevi (Toso 2005b; Toso 2008d).
Per quanto questo tipo di osservazioni richieda la massima circospezione, sulla base di documenti della metà del Cinquecento vengono recensiti a Sassari 375 cognomi di provenienza còrsa (60,6 % del totale), 56 di origine italiana continentale (per lo più ligure, 9 %), 15 spagnoli (2,3 %), e solo 174 (28,1 %) sardi; tra quelli di origine detoponimica, la maggior parte dei cognomi còrsi risulta formata su nomi di luogo della zona di Ajaccio e di Sartène (Maxia 2005, 355).
L’interesse dei religiosi per la lingua parlata a Sassari, in particolare dai giovani, nasceva da esigenze di predicazione e catechesi: si trattava di individuare l’idioma nel quale rivolgersi alla popolazione, problema che alcuni pensavano di risolvere estendendo comunque l’utilizzo del sardo, o promuovendo quello dello spagnolo: tuttavia, sempre padre Francisco Antonio, sottolineando come nel contesto plurilingue della città «no hay lengua cierta sobre que el hombre pueda hazer fundamento», era costretto ad osservare che sebbene «todavia se pone algún cuydado en que se hable sardo», in realtà «en esta ciudad no le hablan, mas tienen lengua por sí quasi como corcesca» (Turtas 1995, 118-119).
Martín Carrillo, in una relazione al re di Spagna del 1611 scriveva infatti che nella città e nel «Capo di Sassari», «usan más la [lengua] italiana y genovesa por tener más comunicación con Italia y Génova» (Plaisant 1968-1970, e cfr. Wagner 1997, 186).
Il problema della genesi e della classificazione del cosiddetto «logudorese settentrionale», la varietà sarda praticata nel Meilogu, in parte del Monte Acuto e in Anglona, risulta complesso: quest’area, «se condivide col logudorese comune il fondo lessicale e la struttura morfologica, se ne distingue per le palatalizzazioni (piénu: log. camp. prénu; ciáe, giáe ‘chiave’: log. kráe, camp. krái) e per i suoni speciali che ricordano la ‘lisca’ toscana. Questi fenomeni, assieme ad altri di minore importanza, danno a questi dialetti un carattere proprio e contrastante con le abitudini del vero sardo, e la divergenza viene ancora aumentata dal numero rilevante di elementi lessicali di origine continentale, la maggior parte dei quali è del tutto sconosciuta agli altri dialetti sardi» (Wagner 1997, 343). Più che a una conseguenza dell’espansione del sassarese, la relativa corrispondenza tra l’area del logudorese settentrionale e l’antico «stato» doriano due-trecentesco fa pensare a modalità anteriori di interferenza sardo-ligure, successivamente superate, a Sassari, dall’affermazione della varietà còrsa. Va notato infatti che le componenti «continentali» del logudorese settentrionale appaiono diverse da quelle che dovevano essere presenti nel dialetto còrso all’atto del suo trapianto in Sardegna: nondimeno, il fatto che quest’ultimo le abbia accolte, può solo significare che il logudorese settentrionale corrisponde grosso modo alla varietà sarda anticamente parlata nel Turritano, poi marginalizzata dalla formazione e affermazione del dialetto urbano.
«À Sassari, le détachement de [e], [o] de leurs anciens corrélats brefs s’est manifestement amorcé (surtout de [o]) mais n’est pas allé jusqu’à son terme. Il faut dire que les vaguelettes d’avancée qu’on a pu déceler à l’intérieur de l’espace corse n’ont guère de pendant dans l’espace sarde où le sassarais se présente comme un isolat» (Dalbera Stefanaggi 2001, 161).
È stato persino ipotizzato che i fenomeni presenti in ajaccino siano stati importati proprio dal Turritano, che avrebbe fornito alla città còrsa «un lot important d’immigrés» (Dalbera Stefanaggi 2001, 242). Pare però improbabile che un afflusso recente di immigrati possa avere non soltanto prodotto un fenomeno così vistoso, ma anche una reazione come quella che si riscontra negli altri quartieri della città, dove la pronuncia della Calata, oggi socialmente marcata in senso negativo, ha provocato la generalizzazione di forme ipercorrette del tipo un corpu, i sordi, a merza, un sartu per un colpu, i soldi, a melza, un saltu ecc. (Dalbera Stefanaggi 1991, 133; Durand 2003, 140).
Il termine, diffuso dalla Liguria anche verso l’area tirrenica (Toso 2018), ha generalmente il significato di ‘stufato magro di ceci e altre verdure’, da consumare assieme al pesce; solo a Sassari è passato invece a indicare una ‘grigliata di frattaglie’, in apparente contraddizione con l’etimologia, che è la stessa di àzzimo e che rimanda all’idea di un piatto poco condito. Il passaggio si spiega probabilmente per antifrasi scherzosa, o a partire dall’idea di un miscuglio di ingredienti diversi.
La voce denuncia una filiazione recente dal genovese fainâ per la caduta di -r- intervocalica, fenomeno attestato in Liguria nel sec. XVIII e consolidatosi soltanto ai primi del XIX. Oggi la fainè è percepita a Sassari e Porto Torres come un piatto della tradizione gastronomica locale, per quanto ne sia generalmente nota la provenienza continentale (da qui la dizione fainè genovese, alla genovese, ricorrente nelle denominazioni delle rivendite): è verosimile che l’introduzione della fainè risalga appunto all’Ottocento, epoca che vide un rinnovato intensificarsi dei rapporti commerciali di Sassari e Porto Torres con la Liguria, che comportò il trasferimento di numerosi imprenditori e commercianti genovesi in città. L’interscambio culturale e linguistico tra Genova e Sassari nell’Ottocento non fu del resto a senso unico: nel teatro delle marionette della città ligure si diffusero le maschere di Barudda e Pippìa, la prima delle quali ha un nome inequivocabilmente sardo, mentre la seconda riprende un cognome isolano che è anche il nomignolo di una figura popolare sassarese più volte ricordata da Pompeo Calvia nelle sue poesie
Ad esempio il dialetto alassino era ancora parlato dal maestro d’ascia Giuseppe Benenati, scomparso nel 2000 all’età di 94 anni (Ajello 2000).
Un fenomeno analogo si verifica anche a Luras, isola linguistica logudorese in pieno territorio gallurese, con la differenza che qui, per il plurale dei nomi, si è generalizzata la forma femminile
Col termine cionfra ci si riferisce a una particolare attitudine alla satira irriverente, al commento critico e sarcastico che caratterizzerebbe i Sassaresi tra gli altri isolani. «L’attaccamento alla propria lingua, alle tradizioni, ai valori autentici della propria cultura e, soprattutto, un esercizio dell’ironia raffinato anche ai livelli sociali più modesti […], è testimoniato da quel patrimonio inestimabile di gòbbure, una volta cantate e recitate da Natale all’Epifania, che solo di recente l’attenzione di alcuni studiosi, di gruppi teatrali e degli stessi strati popolari, ha cominciato a rimettere in uso» (Sole 1999, 76). Sulla gòbbura sassarese cfr. Sassu 1951. Un profilo degli usi scritti del sassarese si legge ora in Linzmeier 2019.
Tale è il caso delle laudi e di altri testi conservati insieme a scritture in sardo nel «codice di Borutta» (Strinna 2015), copia di un archetipo sassarese dei primi del Quattrocento, eseguita a Banari nel 1592: vi emergono tratti grafofonetici e morfologici di impronta genovese significativamente assonanti con la parlata sassarese, ad es. zento ‘cento’, giesia ‘chiesa’, fazano ‘facciano’, nexuno ‘nessuno’, abraza ‘abbraccia’, cazarlo ‘cacciarlo’, iamata ‘chiamata’, giastemato ‘bestemmiato’, dito ‘detto’, prexone ‘prigione’, forme in -emo della I pl. del pres. indic. quali lassemo e del fut. come pregaremo, ecc.
Antonio Cano (ca. 1400-1473), che fu arcivescovo della diocesi turritana, compose il poemetto Sa vitta et sa morte, et passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu pubblicato postumo nel 1557. Sassarese fu anche Girolamo Araolla (1545-1615), autore di una raccolta di Rimas diversas spirituales (1597) in sardo, italiano e spagnolo, e di un rifacimento del poema del Cano: Araolla è unanimemente considerato il «padre» della letteratura in sardo.