I dialetti in città

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    Gerald Bernhard (2021): I dialetti in città, Versione 1 (31.05.2021, 16:33). In: Stephan Lücke & Noemi Piredda & Sebastian Postlep & Elissa Pustka (a cura di) (2021): Linguistik grenzenlos: Berge, Meer, Käse und Salamander 2.0 – Linguistica senza confini: montagna, mare, formaggio e salamandra 2.0, Versione 1. In: Korpus im Text, url: https://www.kit.gwi.uni-muenchen.de/?p=75160&v=1
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1. Note preliminari storiche

Il ruolo di diffusione artistica e culturale, nonché di contatti linguistici, delle città1 si manifesta da molti secoli in osservazioni politiche e filosofiche anche di carattere
(meta-)linguistico. Specie l’antichità classica romana ci ha trasmesso uno scorcio sulle attività culturali e di coltivazione linguistica nell’agglomerato urbano di Roma, del “sermo urbanus”, e lo mette a confronto con le usanze e gli usi linguistici della campagna circostante, il “sermo rusticus” (cf. ad. es. Müller-Lancé 2006, 50-55). Oggigiorno potremmo vedere nelle osservazioni fatte da Cicerone nonché nelle, più antiche, pratiche drammaturgiche di Plauto, dei primi tentativi di riflessioni (meta-)linguistiche che considerano sia la dimensione diatopica e, connessa ad essa, diastratica e diafasica del latino  classico e, nel caso di Plauto, preclassico. In qualche modo si potrebbe parlare di una reciproca attività di intercambi tra centri urbani e campagne e contadi circostanti. Quest’ultimi forniscono le città con prodotti agricoli, le città, in ricambio, comunicano modelli di attività culturali e artistiche nonché di comportamento sociale e anche linguistico (cf. Bernhard/Gerstenberg 2008).

Anche il medioevo ci ha lasciato alcune ma poche osservazioni riguardanti il panorama linguistico della città, in un’ottica ‚variazionale‘, come ci testimoniano le osservazioni di Lotto Lotti sulle parlate nei vari quartieri di Bologna (cf. Winkelmann 1987, 40); oppure le osservazioni (sociolinguistiche ‘ante litteram’) dei Medici sul romanesco del ‘400, caratterizzate da un atteggiamento simile a quello vigente (siamo nel rinascimento) nei strati colti della Roma antica: “breviter loquendo tutti paiono vaccari” (Basile et al. 2010, 402). Le annotazioni medicee rispecchiano, così, gli atteggiamenti della Roma classica, cioè il sermo urbanus e il sermo rusticus. Tale opposizione, basata su alcuni tratti fonetici già in epoca classica, ad es. f romana vs. h ‘laziale’ (cf. Wachter 1987, 504), appare, in varie forme, fino al IX secolo (cf. Müller 2000) e si perde durante l’alto medioevo.

Come ci dimostra l’esempio dello stesso italiano, con le sue fasi storiche di variazione ed elaborazione, la città (di Firenze) diede il „via“ a un modello per una varietà sovraregionale. Uno sviluppo simile, ma basato sul potere politico invece di quello culturale, si svolge in Francia intorno alla corte del rè („la plus saine partie de la court et de la ville”; cf. Vaugelas), ma non in Germania, dove le cancellerie imperiale (Praga) e reale (Meißen/Sassonia) formano la base della ‚koinè luterana‘, il fondamento dell’odierno Hochdeutsch/tedesco standard.

I centri urbani non fungono solamente come centri di irradiazione della cultura urbana, ma allo stesso tempo assimilano ed integrano apporti linguistici arrivati dalle province circostanti e lontane. Tali contatti sociali e linguistici fanno sì che l’elaborazione della gamma stilistica di ‘lingue d’orientamento’ avvenga nei centri urbani in quanto spazi di addensamento di contatti, e che dai centri di economia e cultura un modello si possa diffondere attraverso entità territoriali e politiche più vasti. Anzi, lo spazio comunicativo urbano in sé presenta, già in fasi che precedono ‘registri di elaborazione’, una lingua tettoia, un diasistema differenziato lungo l’asse diafasico e diastratico, con una possibile seguente differenziazione diatopica all’interno della città. Così, il termine latino vulgaris denota l’uso comune, ordinario della lingua latina, soprattutto in registri medi e in situazioni di immediatezza, del panorama diafasico latino. Vulgus ‘popolo, folla’ comprende dunque anche un aspetto quantitativo, che, oggi, è spesso sovrapposto dal peso qualitativo esercitato dalle opere classiche, cioè ‘esemplari’, le quali nello spettro dinamico del latino dell’urbe hanno contribuito alla nostra immagine colta odierna del latino. Tale fatto è, naturalmente, strettamente legato alla conservazione scritta di testi elaborati. Un tale sviluppo non è stato messo in movimento ad es. nelle comunità etrusche, dove la scritturalità era, per quanto ne sappiamo fino a oggi, limitata a iscrizioni ed epigrafi.

Le città latine, dopo l’ampiamento semantico di Roma da ‘città, capitale di un potere ‘politico’ a ‘organizzazione statale, costituzione giuridica imperiale’, hanno ‘adottato’ il ruolo del latino e il latino stesso come nuova ‘patria comunicativa’.

Il caso di Roma dimostra in maniera esemplare anche degli sviluppi opposti. La perdita del suo ruolo centralistico a partire dal terzo secolo trasforma l’urbe e le sue comunità di parlanti in un centro di irradiazione della religione e della chiesa di Roma, ma non più di modelli linguistici. L’emergere della letteratura romana durante l’alto medioevo avviene nel volgare urbano, il romanesco di prima fase, accanto a tanti altri volgari, milanese, genovese, siciliano ad es. Spetta soprattutto a quest’ultimo, nel `200 con la scuola siciliana, ad attivare la creatività letteraria in Italia e specie in Toscana, dove nascerà il volgare ‚classico‘ nel `300. Il toscano rimane, a Roma più che altrove, la lingua di contatto più importante e trasforma Roma e il toscano „in bocca romana“ fino a oggi in un centro ‚capitale‘ della diffusione dell’italiano. Anche il volgare locale stesso vede un profondo rinnovamento a partire dall’arrivo dei papi toscani nel `400 e il `500, e diventa il ‚romanesco di seconda fase‘, documentato e immortalato nei sonetti di G.G. Belli (1791-1863).2

L’accostamento precoce del volgare romanesco alla lingua toscana, durante il rinascimento, fa nascere delle situazioni comunicative con maggiore permeabilità, rispetto ad altri grandi centri italiani, tra lingua italiana e volgare (v. 3.2.). Tale permeabilità, e la forza di integrare, di ‚volgarizzare‘ italianismi nel romano (e nel romanesco) creano, nel corso dei passati tre secoli, un continuum tra varietà alta (italiano in bocca romana), standard, e varietà bassa (romanesco) anziché una convivenza diglossica tra dialetto e italiano, come avviene in centri come Milano, Genova o Torino.

2. Dinamiche linguistiche urbane oggi

Nonostante le diverse predisposizioni comunicative e linguistiche, da situare tra lingua letteraria/lingua nazionale e dialetto, che si incontrano nei vari centri urbani o, in tempi più recenti, nelle agglomerazioni urbane (con le rispettive irradiazioni regionali che raggiungono le comunità circostanti), esiste una permeabilità reciproca tra italiano e parlate locali, ameno che esse non facciano parte di diasistemi linguistici non-italoromanzi. Tale permeabilità in situazioni (molto frequenti) di contatto verticale possono, come osserva Stehl (1988, 1992), portare a un gradatum, più che a una semplice diglossia, tra dialetto (basiletto) storico come LV (low variety, varietà bassa) e HV (high variety, varietà alta). Tale gradatum segue i gradi di maestranza stilistica/dei registri a disposizione e osservabili negli individui o gruppi sociali (dove sempre e per forza gli individui si muovono) di una comunità linguistica. Tale comunità spesso si definisce secondo criteri extralinguistici come paese, città o regione (micro- o macro-). Un fatto importante in queste dinamiche è costituito dalla presa di coscienza dei parlanti stessi, la quale spesso, se non sempre, ‘come punto di partenza’ precede una descrizione (socio-)linguistica delle dinamiche in atto.

Il processo dell’urbanizzazione delle società recenti/odierne comporta un cambiamento socioculturale profondo che coinvolge da un lato una espansione dell’anonimato comunicativo anche nelle zone rurali (che in parte resistono all’influsso di un ‘urban lifestyle’), dove il modello di convivenza urbana raggiunge un po’ tutti gli strati sociali3. Contemporaneamente, anche con la forte presenza dei mass media e, oggigiorno, dei media interattivi, si osserva un depauperamento della presenza di istituzioni culturali di provenienza urbana (teatri, cinema, luoghi di incontro in genere) nelle aree rurali urbanizzate (dall’alto) e persino nella città stesse, dove i quartieri di abitazione (Wohngebiete) continuano a crescere in maniera smisurata, ad es. a Roma.

Le ’autonomie’ culturali rurali, e dialettali, tendono a perdersi a favore di modelli socioeconomici sovralocali e così si perde la ‘portata’ comunicativa dialettale (Radtke 2006).

La tradizione della comunicazione dialettale cede alla dominanza della comunicazione sovraregionale, oggi a modelli di comunicazione in italiano, più aperti e anche più ‘promettenti’ in termini socioeconomici. I dialetti, nelle città/negli agglomerati urbani e anche in centri più piccoli e rurali/provinciali, occupano sempre meno settori della diafasia collettiva e individuale (Radtke 2006, 1795). Comincia, forse dagli anni ’80 (decennio del linguaggio giovanile) in poi, ad assumere di più in più una funzione – da sempre fondamentale e sintomatica (in termini di Bühler 1934) – identitaria. La dialettalità diventa fattore stilistico, quasi un possedimento socioculturale anziché una pratica sociolinguistica. Nel contesto di tali sviluppi, oggi panitaliani, preceduti da evoluzioni sociolinguistiche nei centri urbani maggiori, specie a Roma, spesso basta per molti parlanti (non tutti) il mantenimento di alcuni ‘tratti bandiera’ per marcare l’identità cittadina, regionale o locale. Ciò non implica che i dialetti storici primari, cioè varietà del latino parlato, spariscano del tutto, ma significa che perdono il loro ruolo di fondamento comunicativo, soprattutto a causa dell’ormai diffusa acquisizione della lingua standard come L1.

3. Approci metodici alla descrizione dello spazio linguistico urbano

Approcci metodici alla descrizione dello spazio linguistico urbano (ad es. Còveri 1977; Mioni/Trumper 1977; Klein 1989; Galli de’ Paratesi 1984; Rizzi 1989; Bernhard 1989, 1992) cominciano a entrare nella (socio-)linguistica italiana degli anni ’70 in poi. I lavori della ‘nuova disciplina’ degli ‘urban language studies’ evidenziano che nonostante la italianizzazione diffusa nel paese, i dialetti mantengono funzione identitaria basilare.

Le differenze/distanze tipologiche tra i vari volgari e italiano (ex-volgare toscano) suscita(va)no varie interazioni e reazioni all’allargamento dell’uso della lingua italiana e dei dialetti. Così, la diglossia milanese ad es. si mantiene abbastanza stabile, con oggi pochi residui del dialetto (una volta ‘nobilitato’ da poeti come Bonvesin della Riva o Carlo Porta) in reti sociali e situazioni comunicative ristrette. Nel panorama linguistico milanese odierno si possono vedere gradi di italiano più o meno influenzati dal (ex-)
dialetto che possono emergere nella variabilità della realizzazione del raddoppiamento fonosintattico e dell’apertura di [e] e [o], dell’abbandono della i prostetica oppure nella presenza di occlusive (p, t, k, o di s) in fine parola (Berruto 2002, 97). Tali caratteristiche dell’italiano milanese/lombardo fungono da modello per molte parti dell’Alta Italia. Certamente, Milano non è diventato un modello di pronuncia pan-italiano come lo prevedeva Galli de’ Paratesi (1984), comunque rappresenta un importante centro dell’italiano standard, piuttosto pluricentrico, odierno. In questo riguardo, l’italiano ambrosiano può essere paragonato al (alto)tedesco del nord della Germania, dove l’abbandono del dialetto (basso tedesco) ha portato a un ruolo di modello per almeno il nord tedescofono.

Laddove i dialetti primari persistono, si possono osservare oggi varie ‘combinazioni’ di parlate che spesso includono, sull’asse diafasico, anche l’uso della varietà standard. Ciò vale anche, e forse soprattutto, per i centri minori urbanizzati dove la realizzazione dell’italiano standard segue i rispettivi centri d’irradiazione storici della lingua nazionale: un fatto che sottolinea l’idea di una lingua standard pluricentrica la quale lascia spazio alla libertà dei parlanti di poter realizzare secondo le loro esigenze e la loro voglia di eseguire i propri atti linguistici con più di una tradizione discorsiva. Tali architetture ‘en miniature’ sono state prese in esame ad es. da Thomas Stehl i cui metodi coinvolgono non solo una descrizione ‘professionale’ degli spazi presi in considerazione4, ma anche la funzionalità delle gradazioni osservabili tra il dialetto primario (basiletto) e l’italiano (acroletto). Tale gradatum comprende, in genere, cinque singoli gradi, corrispondenti strettamente al meccanismo classificatore (cognitivo) adoperato nelle azioni linguistiche e metalinguistiche, dunque funzionali, dei parlanti.

Così, i lavori di Stehl gettano luce sul ruolo dei parlanti stessi per il formarsi, oppure per il trasformarsi di architetture regionali provenienti da comunità (ex)diglossiche.

La consapevolezza linguistica dei parlanti riguardante il dialetto urbano è dunque una tessera molto importante, in quanto portatrice delle identità linguistiche, nel mosaico delle parlate urbane e delle discrepanze tra uso ‘reale’ del dialetto primario ed ideologie formatesi intorno a esso nel corso della storia. Tali discrepanze emergono da studi recenti (Matrisciano in corso di stampa) sul napoletano o, meno recenti, sul roman(esc)o (Bernhard 1998; 2004), che evidenziano la variabilità non solo dello spettro linguistico ma anche del repertorio dei glottonimi, espresso in relativamente pochi nomi, sintagmi nominali (‘romanaccio’, ‘romanesco’, ‘romano italianizzato’ ecc.) e perciò di natura discreta, graduale.

Per una descrizione del cambio linguistico del gradatum, della pragmatica e della funzionalità delle ‘varietà’ urbane occorrono dunque anche degli approcci variazionali quantitativi che sono in grado di rendere visibile, o almeno comprensibile, la complessità delle architetture linguistiche urbane5

3.1. Il tessuto sociale urbano e la sociolinguistica

Se già nell’ambito delle inchieste dialettologiche dell’AIS emergono dei problemi di tipo sociolinguistico (ante litteram)6, è solo con l’arrivo di teorie e metodologie della sociolinguistica angloamericana che la multidimensionalità del tessuto urbana diventata il centro dell’attenzione di descrizioni delle varietà riscontrabili negli spazi urbani. Ciò soprattutto perché la ‘verticalità’, la diastratia e la diafasia richiedono più di un parametro e la qualità delle città in quanto spazi di addensamenti comunicativi e di contatti linguistici non permettono delle descrizioni ‘rappresentative’ in senso linguistico-spaziale, ma, al contrario, dirigono i ricercatori su singoli aspetti della variazione linguistica urbana: ad es. il ruolo della socializzazione linguistica degli individui, la variazione interindividuale, la flessibilità (o rigidità) di tessuti e reti sociali e gli atteggiamenti dei parlanti nei confronti di variabili/varietà linguistiche riscontrabili nell’area urbana come centro di irradiazione e di innovazioni culturali, mediali e perciò anche linguistiche.

Dopo gli studi fondamentali di Basil Bernstein (1964) in Gran Bretagna e di William Labov (1966) negli Stati Uniti, che mettono in evidenza il condizionamento sociale dei modi di esprimersi (codici ristretto e elaborato in Bernstein) nonché la variazione diafasica e le aspettative di parlanti e interlocutori (“styles” in Labov), la sociolinguistica arriva anche in Germania e in Italia. In questi spazi comunicativi, però, rimane importante, se non dominante, il ruolo dei dialetti (anche ’urbani’) primari, e perciò interferiscono con modelli Laboviani (“variable rules”) basati su poche variabili linguistiche, se non una sola, per poter descrivere i comportamenti linguistici delle persone coinvolte, tanto nel loro interagire quotidiano quanto nelle interviste o negli esperimenti linguistici. Una semplice trasposizione degli approcci angloamericani sulle realtà più complesse in Italia non può essere fertile se non con l’applicazione di teorie e, soprattutto, di metodi empirici adatti a singoli aspetti dello spazio comunicativo urbano. Oltre a ciò, il ruolo attivo e normativo dei singoli parlanti o di gruppi di parlanti deve essere preso in considerazione, tanto più ci si avvicina ai giorni (o anni) nostri, alle strutture democratiche e di più in più ‘urbanizzate’ della cosiddetta società moderna con le sue possibilità di diffusione di modelli o mode culturali nel mondo accelerato dei mass media e dei media interattivi basati su tecnologie digitali.

Quali aspetti delle dinamiche linguistiche odierne si possono scegliere per la descrizione (socio)linguistica? Come si manifestano standard, neostandard (Berruto 2002, 62-65) oppure neodialettalità? Nora Galli de’ Paratesi (1984), in uno dei primi studi di ‘urban language’ in Italia, riesce a mettere in evidenza il ruolo di Milano come centro di diffusione dello standard del capoluogo lombardo, della (oggi) metropoli, la quale mantiene pochi elementi dialettali in un processo di livellamento. Tali tratti fonici e lessicali farebbero, secondo l’autrice, parte di un ‘modello standard’ degli anni ’80, la “lingua toscana in bocca ambrosiana”.

Elena Rizzi (1989) basa il suo studio sull’italiano parlato di Bologna su una serie di variabili linguistiche (dipendenti) in correlazione con variabili sociali (indipendenti) e in tre ‘styles’. Così la linguista ottiene tre tipi di italiano di Bologna (IB) con possibili tendenze di un registro basso tendente verso il dialetto (IB3) da una parte (‘polo’) e di un registro alto tendente verso l’italiano standard (IB1), evidenziando il ruolo delle fricative. Persiste tuttora, o meglio persisteva, negli anni ’80, una distinzione piuttosto netta tra dialetto locale e i tipi di IB, a differenza della situazione a Torino o Bergamo. Gli esempi di Milano, già centro del dialetto letterario con Carlo Porta (1775-1821), e del capoluogo emiliano, oltre alla progredita erosione del dialetto milanese, dimostrano possibili sviluppi linguistici e sociali nonché metalinguistici che i centri urbani possono produrre e irradiare nei loro dintorni.

3.2. Lo spazio Roma

Un caso ‘a parte’ si ha nell’esempio di Roma. Il centro della latinità ha subito varie gravi trasformazioni politiche (e una religiosa), demografiche-sociali e linguistiche7, dal cosiddetto crollo dell’impero (III-V secc.) alla precoce toscanizzazione nel  ‘400 e il ‘500, con il sacco di Roma (1527) fino all’istaurazione come capitale del Regno d’Italia (1871). Conseguenze linguistiche ne furono la scomparsa del romanesco di prima fase nel corso del ‘600, l’affermarsi di una grande letteratura del romanesco di seconda fase (belliano) soprattutto con i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863), con ripercussioni ancora alla fine del XX, e la (seconda?) standardizzazione della capitale oggi. Tale (neo-)standard romano, a sua volta, serve da modello per molte altre regioni, specie centromeridionali, e per la creazione di nuovi registri informali, ad es. il linguaggio giovanile.

Sia la ricchezza di dati storici, dialettali e meno, che la dinamica (inter?)diastratica  in quasi tutti i (mass- e social)media rendono la capitale un ‘campo sperimentale’ tanto esemplare quanto fertile per studi linguistici variazionali, e percezionali, che gettano luce non solo su fenomeni linguistici e sociolinguistici ma anche sul concetto stesso di ‘varietà’ tra descrizione linguistica e autovalutazione (meta)linguistica e pragmatica dei parlanti. Nonostante l’immagine piuttosto negativa del romanesco, visto come “favella guasta e corotta” (cf. Serianni 1989, 315), il basiletto gode fino ai tempi di oggi di un prestigio letterario (covert prestige?) presso gran parte dei romani. Tale fatto si specchia ad es. nelle Poesie di Trilussa (1871-1950) durante i primi decenni del secolo XX. Più tardi, durante il secondo dopoguerra P.P. Pasolini ricorre al romanesco ‘borgataro’ per le descrizioni nei suoi romanzi ambientati a Roma (D’Achille 2019).

I primi passi per una descrizione sociolinguistica variazionale di Roma si fecero negli anni ’80. A. Stefinlongo (1985) propone un modello di un continuum tra polo dialettale (basso) e polo standard (alto), omettendo per motivi storici ovvi una separazione diglossica – come ad es. a Bologna – tra dialetto e lingua standard. La toscanizzazione del romanesco di prima fase (Ernst 1970) ha tipologicamente ravvicinato il basiletto romanesco al toscano e così all’italiano. Una serie di studi della situazione linguistica della Roma del XX secolo prepara il suolo per una più ampia ricerca empirica sulla variazione tra polo dialettale e polo standard introducendo delle variabili indipendenti come età, sesso, grado di istruzione e mobilità socioeconomica. Il primo studio empirico (Bernhard 1998) è basato su 84 interviste, situate in condizioni comunicative di immediatezza (“kommunikative Nähe”, Koch/Oesterreicher 2011). Le analasi delle interviste hanno portato a una serie di risultati: Come era da aspettarsi, le variabili sociali età e grado d’istruzione mostrano una forte correlazione tra dialettalità (piuttosto un fenomeno tra anziani) e standardizzazione (tra giovani). Il livello di istruzione si rivela come fattore sociale (variabile indipendente) principale nel processo di sdialettalizzazione (cf. Bernhard 1998, 251-257). Un calo netto di realizzazioni dialettali si ha nelle femmine con un titolo di scuola media (indice 0,23) mentre i maschi dello stesso gruppo mantengono una dialettalità relativamente alta (0,57). Parlanti con diploma liceale e/o universitario sono caratterizzati da una dialettalità bassa (0,22 nei maschi e 0,15 nelle femmine).

Non esiste, però, una rigida attribuzione categorica delle variabili sociologiche, extralinguistiche al comportamento linguistico dei singoli parlanti. Anche tra intervistati più giovani si mantiene una dialettalità forte se il grado d’istruzione è basso e la rete comunicativa, e con essa la mobilità socioeconomica, è limitata. Un’analisi intralinguistica fa emergere dei ‘destini’ di singole variabili, fonetiche e morfologiche, diversi tra loro: il rotacismo di l preconsonantica (artro/antro ‘altro’) e nn ~ nd (quanno ‘quando’, monno ‘mondo’) sono molto frequenti (3875 risp. 1856 occorrenze) e si mantengono nei parlanti dialettali, ma solo in uno in 100, mentre lo scempiamento di rr, storicamente più recente (Palermo 1993), tende a perdere la realizzazione r (bira ~ birra). La parola grande - in Belli ancora granne - non è in nessun caso stata realizzata con nn (!), dovuta, forse, al ruolo del più frequente e popolare grosso.

L’analisi intralinguistica del corpus rivela, oltre a quella sociolinguistica, dei risultati diversi riguardanti il ‘destino’ delle singole variabili dialettali ~ ò; ʎʎ ~ j (j), nd ~ nn, l + cons ~ r/n + cons.; rr ~ r: la recessione (statistica) più forte si ha in ~ ò (fuoco ~ fòco), quella più debole in rr ~ r, l + cons. e in nd ~ nn. Allo stesso tempo si può osservare una forte correlazione statistica (secondo il coefficiente di Spearman) tra il ‘comportamento’ di nd ~ nn e l + cons. (correlazione positiva di 0,87), dunque di due variabili consonantiche ‘antiche’. La correlazione tra ~ ò e rr ~ r è relativamente debole e suggerisce, così, un ‘trattamento a parte’ della variabile vocalica rispetto al consonantismo. Oltre a ciò, ~ o e rr ~ r appaiono con una frequenza relativamente bassa e limitata a pochi lessemi (suòra vs. sòra; guerra vs. guera), dunque facilmente controllabili e spesso anche disambiguanti (suòra vs. sòra ‘signora’, buona vs. bòna ‘donna attraente’). Un caso interessante si ha nella correlazione tra le variabili dialettali e quelle, anch’esse tipiche del romanesco e anche dell’italiano regionale, ma considerate non tipicamente romane,  la -t- epentetica,  ad es. rs ~ rts o ns ~ nts (persona ~ perzona, penso ~ penzo): la correlazione tra rs ~ rts, ns ~ nts e le altre variabili fonetiche è leggermente negativa. Tale fatto può sottolineare la consapevolezza linguistica dei parlanti (del corpus) riguardante la ‘romaneschità’ fonica dei vari tratti del basiletto romano. Per questo motivo nts e rts, diffuse in tutta l’Italia centro-meridionale, erano state introdotte nelle analisi come variabili di controllo.

Accanto alla sdialettalizzazione dello spazio linguistico romano si osservano delle tendenze ‘innovatrici’ nel parlato della capitale; esse riguardano soprattutto la lenizione delle plosive t, k intervocaliche, la quale può variare tra [t], [k], [d], [g] e delle realizzazioni fortemente lenite [đ], [ǥ]. Quest’ultime sono presenti nelle generazioni più giovani, generando una impressione acustica ‘strascicata’, ovvero [ssrasciǥađa], ormai considerata quasi tipica del neo-romanesco (cf. D’Achille/Giovanardi 1995) o ‘romanesco di terza fase’, più vicino allo standard quanto all’abbandono delle realizzazioni dialettali, ma in grado di creare una percezione non-standard tra i parlanti giovani (e gli ascoltatori più anziani). Tali innovazioni del tipo ‘sprechsprachlich’ (cf. Coseriu 1974) possono portare alla cosiddetta neodialettalità, ma sono allo stesso tempo tipiche del parlato ‘di immediatezza’ nello spettro della variazione diafasica, e disambiguabili per chi ha demisticatezza con lo standard scritto. Per questo motivo, la lenizione di -k- e -t- non indica in primo luogo una diatopicità, ma piuttosto una diastraticità e, più ancora, diafasicità. Perciò, il numero ridotto di nuove variabili locali o regionali  non compensa la sdialettalizzazione del roman(esc)o. L’identità del romano si basa, e probabilmente si baserà nel futuro, su meno tratti identificatori, markers, per sottolineare l’appartenenza a una, presunta o reale allo stesso tempo, provenienza locale.

I cambiamenti linguistici, riguardanti la scomparsa di tratti basilettali del romanesco di seconda fase, e sociolinguistici, riguardanti le ‘innovazioni’ foniche del romano di immediatezza, caratterizzano il romanesco di “seconda fase e mezzo” (Vignuzzi 1994, 29, 31) e portano a un romanesco di terza fase, il quale conserva elementi lessicali tradizionali con le rispettive realizzazioni foniche ed elementi morfologici che fungono da identificatori geo-sociali o sono semplicemente ‘economiche’ (infinito apocopato, so ‘sono’). Ciò aiuta tanto all’autoidentificazione cittadina quanto alla riconoscibilità di romani in altre parti d’Italia. La presenza di “particolar combinazion[i]” (Ascoli 1876, 387) individuali sottolinea la molteplicità sociale di Roma e dei glottonimi usati per esse, i quali oscillano tra “dialetto” e “lingua vera e propria” (Bernhard 1998, 261-264; Bernhard 2004). Roma, a livello variazionale e quantitativo, presenta un continuum tra polo dialettale (una dialettalità al 100% in tutte le variabili non si è misurata in nessuno dei 84 informatori) e polo standard (dove persistono alcune realizzazioni del dialetto tradizionale, e la realizzazione nts per ns o, un po’ meno frequente, rts per rs). A livello di classificazione e autodescrizione si ha un gradatum ‘metalinguistico’, che spesso, però, non combacia con il continuum misurato. Questo rapporto tra misurazione linguistica e autovalutazione pragmatico-linguistica di non-esperti è più congruente per esempio a Bologna (Rizzi 1989) o Canosa di Puglia (Stehl 2012, 242-265).

Oltre ai tratti fon(et)ici romaneschi, anche la morfologia mostra una progrediente sdialettalizzazione. Il sistema verbale conserva poche varianti del romanesco di seconda fase; ad esempio l’infinito apocopato (fa’, ‘fare’; veni’ ‘venire’, séde’ ‘sedere’, poté ‘potere’) o varianti ‘allegroform’ come so ‘sono’ pònno ‘possono’ oppure fossilizzate, ad es. possino (in “te possino…”). Forme come facémio ‘facevamo’, magnámio ‘mangiavamo’ o agnede, annette ‘andò’ sono scomparse completamente nelle generazioni più giovani, anche se i ricordi di tali caratteristiche romanesche hanno suscitato tra i giovani un sémio (iperdialettale) per semo ‘siamo’.

Anche il complesso dell’articolo determinato (con er ‘il’) e delle preposizioni articolate gode di una certa ‘popolarità’, descritta come ‘allegroform’ nella cosiddetta Lex Porena (cf. Porena 1925), risaliente al parlato degli anni ’20 del XX secolo (daa ‘della’, dii ‘dei’, ‘degli’ ecc.), ‘tipica’ dell’odierno romano di immediatezza/Nähe per motivi del “moindre effort”.

Le dinamiche linguistiche tra basiletto e neodialetto di Roma rispecchiano per certi versi una crescente individualità dei singoli parlanti, socio-economicamente più aperti, situati tra lingua standard e tradizioni dialettali. Ciò implica da parte dei parlanti un continuo situarsi tra le varie identità locali, regionali e (inter)nazionali, consapevole o meno, in una società democratica e aperta. Un certo ‘andar avanti’ produce delle nuove varietà, ‘reali’ o denominate come tali, come il linguaggio/i gerghi giovanili. Essi tendono a sottolineare una autonomia creativa di parlanti giovani, nata nello ‘spazio di addensamento comunicativo’ delle città, centri di irradiazioni di tendenze e mode in grado di raggiungere individui e/o gruppi anche fuori di essi (cf. Radtke 1993; Bernhard/Schafroth 2008). Ma anche il romanesco storico, belliano offre tuttora delle caratteristiche fonologiche ancora da scoprire (Schirru 2017); delle varietà diastratiche, ad es. il giudeo-romanesco (Lorenzetti 2017; Palermo 2017), da descrivere, anche con nuove impostazioni teoriche e metodiche.

3.3. Napoli

Anche se negli ultimi anni il paradigma sociolinguistico-dialettologico ha ceduto parecchio spazio a impostazioni teoriche non-storiche, cognitivistiche e pragmatiche, lo spazio urbano rimane al centro dell’attenzione, soprattutto se esso viene preso in considerazione sotto l’aspetto del ruolo e la creatività dei parlanti stessi. Sia la linguistica percezionale che quella della migrazione aprono nuove prospettive sui vari comportamenti, i vari tipi di interazione nello spazio di addensamento comunicativo in società urbanizzate. L’esempio di Napoli, dove il dialetto gioca un ruolo identificatore primario (Radtke 2002, Matrisciano 2016; Matrisciano in corso di stampa) dimostra quanto l’identificazione con la città e il suo territorio domini l’interazione sociale quotidiana. Ed essa addirittura alimenta il mito ‘Napoli’ il quale, a sua volta, è una costante antropologica napoletana basata sul dialetto. Diversamente da Roma, una consapevolezza diglossica della situazione linguistica del capoluogo campano – e la ex-capitale del Regno di Napoli – localizza la ‘lingua’ presso i strati colti e il volgare presso il ‘resto’ sin dalla questione della lingua del ‘500. Il mito della città è strettamente collegato all’uso del dialetto, ed esso, a sua volta riesce a costruire una topografia partenopea (Matrisciano in corso di stampa, 542) da parte dei parlanti dei vari quartieri della città. Il dialetto, il basiletto, nonché quello più o meno ‘italianizzato’, forma una base elementare identitaria in quanto prassi culturale quotidiana mentre a Roma il romanesco (di seconda fase) è visto piuttosto come un possesso culturale. Una testimonianza come “ora che sappiamo parlare l’italiano, possiamo anche (ri)parlare il dialetto” (Matrisciano in corso di stampa, 35) dimostra un’altra, una nuova faccia del mito Napoli: la presenza dello standard nazionale non interferisce con, ma arricchisce la cultura locale.

4. Riassunto

La composizione multipla delle popolazioni urbane, con afflussi migratori variabili in diacronia, appare come una costante urbanistica sin dall’antichità. In epoche più recenti, molte città sono cresciute a causa di sviluppi industriali e commerciali (‘new economy’) nonché per cambiamenti amministrativi e culturali. Perciò, oltre alle osservazioni che riguardano i fenomeni e i comportamenti linguistici e i loro cambiamenti storici, con metodi dialettologici e sociolinguistici sono possibili nuove impostazioni teoriche e metodologiche riguardanti l’osservazione e la descrizione che mirano al cambio linguistico ‘in nuce’ e il formarsi di nuove ‘varietà’, dovuto a molteplici contatti, in ‘statu nascendi’.

Accanto a metropoli come Milano e Roma, in gran parte ‘sdialettalizzate’, altri centri maggiori, soprattutto Napoli, ma anche Bologna, mantengono il dialetto come identificatore regionale e storico per gran parte degli abitanti. Anche la stessa Firenze, non più il centro di irradiazione nazionale, mantiene una serie di tratti dialettali/vernacolari in certi strati sociali e nell’italiano, l’ex-fiorentino, parlato nel capoluogo toscano.

La progrediente standardizzazione nella società italiana può sempre di più portare a un italiano pluricentrico, con varianti dello standard nazionale a seconda delle regioni. Esse ‘completeranno’, forse, il gradatum tra italiani regionali e standard regionali, essendo quest’ultimi risultati delle forze centripete dei centri urbani.

Nuovi ‘attori’ sociali nel tessuto urbano, ad es. la presenza di numerosi immigrati (sin dagli anni ’90; cf. Bernhard 2004) hanno generato nuove varietà, dialetti terziari, ancora poco esplorate, che aggiungono nuovi elementi ai registri delle varietà italiane, anche tra vari gruppi di immigranti; la loro osservazione e descrizione è lo scopo della linguistica della migrazione/Migrationslinguistik (Krefeld 2004).

La linguistica percezionale (Krefeld/Pustka 2010) con le sue impostazioni teoriche ed empiriche, potrà contribuire all’osservazione del destino di innovazioni soprattutto foniche e descrivere tendenze di mantenimento o della loro scomparsa nel parlato, oltre alle innovazioni lessicali, le quali spesso suscitano, precocemente, l’identificazione di ‘nuove varietà (ad.es. giovanili) da parte di linguistici non-esperti.

La città (occidentale, mediterranea) come addensamento di attività economiche e commerciale nasce sulla scia delle società agricole della mezzaluna fertile (Benevolo 1983) e proscrive la divisione del lavoro già esistente nelle società preurbane, ad es. tra donne e uomini, e fa nascere una stratificazione sociale più differenziata; cf. anche Haller 2005, 126, 130, 169. Gli sviluppi demografici e sociali di città antiche e centri moderni sono delineati ad es. in Benevolo 1983, 27, 143-145. La situazione e la storia architettura di Roma è ampiamente documentata in Benevolo 1983, 177-255, 1030-1033, passim.
L’opera Belliana permette una descrizione grammaticale del romanesco (Tellenbach 1909), mentre lavori lessicografici non cominciano ad apparire a partire dal 1933 (Chiappini). I più recenti dizionari (Ravaro 1994; D’Achille/Giovanardi 2016ss.) prendono in considerazione anche lessemi non letterari. Milano (Cherubini 1839) e Venezia (Boerio 1865) precedono, dunque, Roma di vari decenni.
Tullio De Mauro (2002, 66-68) delinea lo sviluppo del „urbanismo“ tra il 1861, anno della prima unificazione nazionale (senza Roma), e il 1961, in tempi di pieno sviluppo economico, con cifre o con cifre impressionanti. Il numero dei centri urbani con più di 20 mila abitanti cresce da 52 nel 1861 a 140 nel 1931, più di 200 nel 1951 e a 325 nel 1961, pari a 23,7 milioni di persone o al 46,7 % della popolazione nazionale.
Basandosi su studi empirici condotti da Stehl durante gli ani ’80, lo studioso descrive vari livelli di competenza dei parlanti ad es. a Canosa di Puglia (cf. Stehl 2012, 62, 83-104), secondo parametri Coseriani, come architettura o sistema, norma e ‘parole’. Messe a confronto con i livelli di descrizione linguistica, Stehl elabora dei “gradata” (Stehl 2012, 105, 126-131, passim).
Stefinlongo (1985) introduce il termine ‘continuum’, fino allora usato nella geolinguistica e nella creolistica, nelle discussioni intorno a una descrizione (sociolinguistica) di Roma. A rigor di termini, anche un continuum linguistico è costituito di tanti piccoli passi, gradi.
K. Jaberg e J. Jud (1928, 186-193) sono consapevoli della variazione sociale e dei contatti tra basiletti e varietà urbani e regionali, tra persone di diversa estrazione sociale.
P. Trifone (2008) delinea la storia linguistica della capitale partendo dalle prime iscrizioni, e dedica un bello capitolo alla situazione odierna (92-121), con la sua variazione e le varietà nuove (neoromanesco, linguaggio giovanile).

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